Ferita aperta sull’Italia del ‘43
Pubblicato da Raffaella Bonsignori in Storia · Martedì 14 Nov 2023
14 novembre 1943. Sono passati ottant’anni. È una fredda mattina. Siamo a Castel d’Argile, tra Ferrara e Bologna. Da un fossato riemerge il corpo senza vita del maggiore Igino Ghisellini, comandante repubblicano ferrarese.
Il giorno dopo, la durissima rappresaglia fascista vede fucilati undici antifascisti. Ha inizio la sanguinosa guerra civile italiana. La più vergognosa delle vergogne.
Chi ha compiuto l’assassinio di Ghisellini, che ha dato il la a quel bagno di sangue? E, soprattutto, perché l’ha fatto?
Nel film La lunga notte del ’43, tratto dalle storie ferraresi di Bassani, Florestano Vancini offre una versione dei fatti assolutamente fantasiosa, che, tuttavia, viene presa come fosse una pagina di storia, soprattutto da chi pensa che la storia si impari al cinema invece che studiando libri e leggendo documenti. Si afferma che ad uccidere Ghisellini sia stato un fascista di fazione opposta al fine di scatenare violenza. Tipico del revisionismo rosso.
Le cose, però, sono andate diversamente.
È un anno difficile, soprattutto dopo quell’armistizio “a sorpresa” che ha reso l’Italia campo di battaglia di tutti, alleati ed ex alleati.
A Salò si è insediato il governo repubblicano di Mussolini.
Igino Ghisellini è una persona per bene. Ha combattuto nella Prima e nella Seconda guerra, comportandosi da eroe e riportando ben tre medaglie d’argento e tre di bronzo al valore; ha due lauree e fa parte di quel gruppo di moderati che Mussolini vuole portino avanti le idee del fascismo senza eccessi facinorosi, in modo da traghettarlo oltre gli eventi ormai inevitabili che, di lì a due anni, l’avrebbero visto morire a piazzale Loreto. Sotto la sua guida, la provincia di Ferrara è una delle più tranquille di quel difficile momento storico e politico: Ghisellini persegue una concreta politica di pacificazione. Ecco, pacificazione: un termine che, anni dopo, sarebbe diventato attributo di Togliatti in virtù di un’amnistia non esattamente paritaria.
Nel territorio ferrarese si è da poco costituito un gruppo CLN. Ghisellini, bloccando ogni approccio violento alla cosa, vuole incontrarne gli esponenti, in modo da concordare un patto di non belligeranza e mantenere la pace sul territorio. Lui è fatto così: moderato, assolutamente nemico di ogni violenza gratuita, sia di matrice fascista che resistenziale.
Contrari a questo incontro sono gli esponenti della falange repubblicana più violenta e di quella comunista del CLN, facente capo a Spero Ghedini, il quale, in effetti, non partecipa.
L’incontro ha luogo a fine ottobre in quel di Ferrara, presso lo studio dell’Avv. Mario Zanatta appartenente al Partito d’Azione e l’accordo viene raggiunto. «Un incontro tra galantuomini» lo definisce correttamente Giorgio Pisanò.
Seguono giorni relativamente tranquilli. Ghisellini continua a svolgere il suo lavoro coscienziosamente, per poi tornare a casa dalla moglie, nel piccolo paese in cui abita, Casumaro. Si muove sempre in macchina, da solo, dà passaggi a chi ne ha bisogno a prescindere dall’orientamento politico. Ama la sua terra e i suoi conterranei.
Il 14 novembre deve partire alla volta di Verona per partecipare al Primo Congresso del Partito Fascista Repubblicano. La sera prima, quindi, si congeda dai colleghi che non avrebbe rivisto se non dopo qualche giorno. In realtà non li avrebbe rivisti più, ma ancora non può saperlo.
È la sera del 13 novembre. Sale sulla sua 1.100 e si dirige verso casa. In realtà, si avvia verso la morte.
Alle dieci del mattino seguente, infatti, viene ritrovato senza vita. È crivellato di colpi da arma da fuoco, gli sono stati sottratti soldi e stivali, che, evidentemente, sono piaciuti al suo assassino. Poco distante la sua auto. A bordo si rinvengono i bossoli e le tracce di sangue. L’assassino, dunque, aveva colpito mentre Ghisellini, com’era suo costume, gli stava dando un passaggio.
La notizia si sparge presto e trova tutti tristi e impauriti, anche i partigiani bianchi, quelli che con Ghisellini avevano raggiunto lo storico accordo di pacificazione. Nell’aria stagna, plumbea, la nube della violenza che sta per esplodere. E così è, purtroppo.
Dal Congresso veronese Pavolini invia il console Vezzalini al comando delle squadre federali di Verona e di Padova; ma Ferrara viene lentamente invasa da una colata lavica di fascisti armati, provenienti anche da altre zone. La gente si chiude in casa, le finestre diventano occhi timorosi. Molti gli arresti in vista di un giudizio sommario. I vice federali di Ghisellini impiegano le loro forze nel cercare di sedare gli animi: Ghisellini non avrebbe voluto che la violenza antifascista trovasse risposta nella violenza fascista. Nell’animata discussione che riempie il Castello Estense, si decide che siano messi a morte nove uomini: Emilio Arlotti, Pasquale Colagrande, Giulio Piazzi, Mario Zanatta, Vittore Hanau con suo figlio Mario, Alberto Vita Finzi e Cinzio Belletti. In realtà le vittime saranno undici. A costoro, infatti, si aggiungeranno Girolamo Savonuzzi e Arturo Torboli, non si sa perché, non si sa come. Fino all’ultimo nessuno di loro saprà di essere stato condannato a morte. Escono dal Castello ritenendo che sarebbero stati scortati in piazza per una pubblica accusa, ma gli spari risuoneranno ben prima, sulla strada e il loro sangue righerà il volto di una città che Ghisellini aveva intelligentemente preservato dalla violenza. Del resto, si sa, la violenza è una bestia che non si fa imbrigliare e, solitamente, produce altra violenza. Solo i comunisti riescono a sottrarsi dal rastrellamento. Si tengono in disparte e, considerato quel che l’uccisione di Ghisellini ha prodotto, considerato quanto il popolo abbia in odio coloro che hanno scatenato quell’inferno, decidono di trasferire le loro colpe sui fascisti; spargono il seme del dubbio. Stando alle loro parole sarebbe stato Govoni, uno dei più violenti repubblicani. Govoni, però, non si trovava lì, quella notte, e dalle successive indagini eseguite da magistratura, polizia, carabinieri e CLN stesso, non emergerà alcun profilo di responsabilità fascista. Nessuna indagine, invece, viene svolta per accertare la responsabilità dei partigiani rossi, gli unici cui avrebbe giovato l’inizio del conflitto interno, gli unici che avrebbero tratto vantaggio dalla morte di un fascista moderato, capace di parlare con il CLN moderato. Il fascismo doveva morire, questo era il grido della battaglia rossa. La sua sopravvivenza nei moderati era per loro intollerabile.
La prova di ciò è scritta nero su bianco nell’edizione clandestina de L’Unità del 15 dicembre di quello stesso anno, un mese dopo la morte di Ghisellini. Ivi si legge: «Le ultime due o tre settimane sono state dure per i traditori fascisti: a Torino, dopo il console Giardina, sono caduti sotto il piombo giustiziere dei patrioti altri tre traditori: Riva, Chiesa, Trincheri; ad Imola è stato giustiziato un console fascista; a Castel d’Argine (Bologna) uguale sorte è toccata al reggente federale fascista di Ferrara …» e il bollettino degli orrori prosegue. Dopo tale rivendicazione i comunisti fedeli al silenzio tentano ancora di negare l’assassinio di Ghisellini, affermando che ne L’Unità si parla di Castel d’Argine e non d’Argile. Cercano di trasformare un refuso nella più grande delle menzogne. Ma, come si dice, le menzogne hanno le gambe corte.
La verità uscirà anche per bocca di Spero Ghedini, il partigiano comunista che si era rifiutato di partecipare all’incontro di pacificazione con Ghisellini, il partigiano processato per il trafugamento del tesoro di Italo Balbo: anni dopo, infatti, ormai terminata da vent’anni la sua carica di sindaco di Ferrara, durata dal ’56 al ’63, pubblicherà un suo libro di memorie dal quale emergerà la soddisfazione per essere riusciti a far attecchire sul campo arato della storia il seme della menzogna, facendo credere che la responsabilità per l’uccisione di Ghisellini fosse da ricercare all’interno del partito fascista.
Ed è una verità gemella a quella riferita da Vittorio Gombi, ex comandante della resistenza locale, il quale, in un’intervista rilasciata a Gianfranco Stella, svelerà il nome del responsabile: l’uccisione di Ghisellini era stata decisa all’interno del CLN rosso ed era stata eseguita da Mario Peloni, nome di battaglia Orazio.
Una cosa è certa: il ritrovamento del corpo di Ghisellini, in quel triste 14 novembre di ottant’anni fa, ha vergato con il sangue una delle peggiori pagine della storia italiana. È l’inizio, infatti, di giorni bui sui quali si ammucchieranno molte vite strappate alla vita, appartenenti ad entrambi gli schieramenti; giorni ancora oggi noti come “guerra civile”. E in questa guerra moriranno, per mano dei comunisti, intere famiglie e moltissimi ragazzi.
La morte di giovani vite innocenti non ha politica, non ha ideale. È solo l’azione di anime che non conoscono dignità
Ben lo descrive Curzio Malaparte nel suo romanzo autobiografico La Pelle ed è una pagina che merita di essere letta, merita di essere scolpita nel marmo di una storia spesso negata. Mi si perdoni la parte riassuntiva scritta in tondo:
I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino, C’era anche una ragazza, fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gassoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli di Masaccio negli affreschi del Carmine.
L’ufficiale partigiano indicò uno dei ragazzi senza nemmeno guardarlo e lo chiamò a morire.
«Fa’ presto. Non mi far perder tempo. Tocca a te»
«Se gli è per non farle perdere tempo» disse il ragazzo con voce di scherno «mi sbrigo subito»
E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.
[…] Il ragazzo gridò: «Viva Mussolini!» e cadde crivellato di colpi.
© di Raffaella Bonsignori
[14 novembre 2023 – Tutela certificata S.I.A.E.]
Foto di dominio pubblico
Per approfondire:
Spero Ghedini, Uno dei centoventimila, Ed. La Pietra, Milano, 1983
Giorgio Pisanò, Sangue chiama sangue, Ed. Pidola, Milano, 1962
Giorgio Pisanò, Storia della Guerra Civile¸ FPE, Milano, 1971-1972
Gianfranco Stella, Compagno mitra. Saggio storico sulle atrocità partigiane, Ind. Pub., 2018