Intervista a Gian Piero Galeazzi. L'uomo dello sport
Pubblicato da Raffaella Bonsignori in Interviste · Giovedì 24 Mag 2018
Gian Piero Galeazzi nasce a Roma nel 1946. Mentre porta a termine gli studi universitari, laureandosi in Economia e Commercio con una tesi in Statistica, pratica il canottaggio per il Circolo Canottieri Roma, sotto la guida del padre Rino, un vero campione, medaglia d’argento agli europei del 1932 nel “due senza”, un uomo di alta competenza tecnica, un grandissimo allenatore, che, ancora oggi, il popolo del fiume ricorda con stima e deferenza.
Rino forgia il figlio non solo sotto il profilo atletico, ma sotto quello psicologico. Concentrazione. Impegno. Fatica. Gian Piero, a quell’epoca, è facile a disperdere le proprie energie e la sua passione sportiva è tutta focalizzata verso il pallone. Rino lo instrada al remo piano piano, senza farsene accorgere, iscrivendolo al Circolo Canottieri Roma, luogo dove non esistono solo le barche, ma una splendida piscina, campi da tennis, palestra…; un luogo che, ancora oggi, esprime l’eleganza e la gioiosità del vero sport.
Per Gian Piero, quello è il primo passo di una lunga, sfolgorante carriera remiera, perché il canottaggio è uno sport che fa innamorare. E questo vale sia per il campione, sia per il vogatore amatoriale come me, che ho mosso i miei primi passi remieri proprio al Circolo Canottieri Roma. Dapprima lo vedi da lontano, questo sport, ammiri il contesto in cui si pratica, il ritmo dei vogatori, l’eleganza dei movimenti, lo scivolamento della barca sull’acqua diamantina. È come guardare un quadro di Renoir, o leggere un racconto di De Maupassant, dove l’attività remiera ha un che di romantico. È uno sport affascinante ma lontano da te. Poi la curiosità vince, sali in barca per la prima volta, inizialmente sulla iole, poi sui fuori scalmo, remata di punta o a doppio remo. Ti rendi conto che quell’armonia, quella leggerezza che ammiri da lontano costa una fatica enorme, allenamenti durissimi, sudore, fiato corto, muscoli roventi. È già troppo tardi, però. Sei innamorato. Sei irretito. Sei conquistato. Ti alleni e dai anche l’anima nel “serrate” finale.
Gian Piero, dunque, si innamora del canottaggio ed inizia a praticarlo con tenacia. Il fisico c’è; così anche l’allenatore: il padre gli insegna a “capire” l’acqua, a “sentire” la barca e piovono i primi successi.
Nel 1964, sul singolo, vince il campionato FISA, corrispondente all’attuale campionato mondiale juniores; e, sul doppio, con Giuliano Spingardi, vince il campionato italiano juniores ed il campionato italiano del mare; nel 1965 è campione italiano sul singolo; nel 1968 è campione italiano assoluto sul doppio, sempre con Giuliano Spingardi, con il quale, lo stesso anno, non conquista per un soffio il prestigioso titolo di Lucerna, all’epoca la più importante regata internazionale. Sempre nel 1968, poi, arriva la convocazione alle Olimpiadi di Città del Messico.
Terminata la carriera di sportivo, si distingue come radiocronista, prima, e telecronista, poi.
In entrambi i ruoli è incisivo, memorabile. Canottaggio, tennis, calcio: tre sport in cui esprime competenza assoluta e un accattivante modo di comunicare.
Indimenticabili le telecronache di canottaggio: dopo un crescendo di entusiasmo e di particolari tecnici che fanno vivere la gara a tutti gli spettatori, anche a quelli digiuni di questo sport, aumenta il ritmo, seguendo i colpi degli atleti fino all’esplosione di entusiasmo nel finale.
«La prua è italiana!» esclama sulla vittoria dei fratelli Abbagnale alle Olimpiadi di Seul nel 1988. «E andiamo a vincere!» è la chiusa sulla straordinaria gara di Antonio Rossi e Beniamino Bonomi sui mille metri in K2, ai campionati mondiali di Sydney, nel 2000.
Arrivano, poi, gli anni di Domenica In. È il giornalista sportivo di 90° Minuto, ma anche l’uomo di spettacolo accanto a Mara Venier.
Oggi Gian Piero è un ragazzone di 72 anni, un perfetto mix di simpatia da eterno ragazzo ed incisività da serio cronista. È una fonte inesauribile di ricordi sportivi. Sono andata a trovarlo per una chiacchierata.
Gian Piero e il canottaggio. Tutti noi conosciamo i tuoi risultati, in singolo e nel doppio anche insieme al comune amico Giuliano Spingardi, grandissimo campione di canottaggio e di umanità. Quello che voglio da te, oggi, è conoscere qualche episodio meno noto, qualche ricordo divertente legato al tuo passato di sportivo.
Ci vorrebbe un’enciclopedia! Ho cominciato a fare canottaggio per correggere il braccio, perché mi ruppi il piatto radiale quando ero piccolo. Io non pensavo al canottaggio. Mi piaceva giocare a calcio. Mio padre mi portò in barca lavorando di fine psicologia, invogliandomi ad andare al Circolo Canottieri Roma per giocare a pallone, per andare in piscina e, piano piano, mi ha attirato in questa “trappola” del canottaggio, che, poi, ti entra nel sangue e non te ne stacchi più. Di episodi da raccontare ce ne sono cento milioni. Ti posso parlare di un qualcosa che non ho mai raccontato. Riguarda i miei esordi. Ero ad una gara zonale a Castel Gandolfo e avevo uno skiff vecchio, cui attribuivo tutte le colpe. Ovviamente, la barca non c’entrava niente; la colpa era solo mia che non ero ancora bravo, che ero solo un debuttante con tanto da imparare. Ebbene, quel giorno mi arrabbiai e puntai il pontile con la barca, prendendolo lateralmente. La distrussi, è ovvio. Quando uscii dall’acqua e raggiunsi mio padre lo vidi incredibilmente calmo. Non inveiva. In realtà stava solo aspettando che mi avvicinassi e fossi a portata di piede. Dopo di che mi sferrò un calcio nel sedere che ancora me lo ricordo …
Meritato, diciamocelo …
In effetti, sì. Proprio qualche giorno fa, sono andato in un ristorante sul lago e il proprietario, che ha una certa età, ha ricordato con me l’episodio, narrandolo con il suo accento locale. Divertentissimo. Questo piagnisteo sulla barca, però, non mi valse solo il meritato calcione, ma anche l’acquisto di uno skiff nuovo, uno Stämplfi, praticamente la Ferrari delle barche; una barca svizzera, un vero gioiello. Mi ricordo ancora quando arrivò allo scalo S. Lorenzo. Io, mio padre e l’avvocato Felici, allora Consigliere al canottaggio del Canottieri Roma, andammo a ritirarla come fosse una reliquia. La caricammo sul camioncino e la portammo al Circolo per cominciare a montarla, entrando in crisi a causa delle scritte in tedesco; ma, alla fine, ce la facemmo. Comunque, su quello skiff ho conquistato più di un titolo importante. E non solo sullo skiff. Io sono stato uno dei pochi ad aver vinto il titolo italiano sia nella canoa, sia nel canottaggio.
Dagli anni delle gare a quelli del giornalismo. Esperto di canottaggio, ovviamente, ma anche di tennis e di calcio, con il cuore biancoceleste come il mio. Quand’è che Galeazzi ha deciso di dedicarsi alla cronaca sportiva?
Non ci pensavo proprio, a dire il vero! Appena laureato, andai a fare pratica da un commercialista. Fu un’esperienza totalmente negativa. Mi sfruttava dalle otto alle venti per andare a fare giri in tribunale e non mi pagava nemmeno la benzina. Un giorno, un vecchio impiegato mi disse: «A Galea’, ma che stai a fa’ qua dentro? Te manderà sempre a fa’ i giri e non te insegnerà mai niente». Così, dopo sei mesi, senza dire nulla a mio padre, perché era suo amico, me ne andai. Fu allora che cominciai a collaborare quasi per caso con la RAI, accanto a cronisti come Ciotti, Ameri, Evangelisti, Icardi e Moretti. Le loro voci raccontavano lo sport e ti facevano sentire in campo di gara. Mi appassionai. Come col canottaggio mi ritrovai coinvolto e, come con il canottaggio, fu un momento d’oro della mia vita.
Un giorno, poi, arrivarono le Olimpiadi di Monaco …
Al secondo anno di Radio, nel 1972, fui mandato alle Olimpiadi di Monaco. In realtà, al Giornale Radio, non facevo il cronista. Pure lì, all’inizio, mi tenevano in un perenne limbo. Per dirla alla romana, portavo i cappuccini. Una mattina, non ero ancora andato in redazione, comprai la Gazzetta dello Sport – la leggevo sempre perché mi serviva anche per imparare il mestiere – e vedo, in prima pagina, un titolo altisonante: la squadra della RAI alle Olimpiadi di Monaco. Lessi i nomi degli inviati e, con mia grande sorpresa, vidi che c’era anche il mio e quello di Nino Benvenuti, che era stato campione del mondo di pugilato nei pesi medi. Tra l’altro, alcuni invidiosi sparsero la voce, falsa, che io m’ero vantato di poterlo mettere k.o. senza problemi. Nino, allora, venne da me e mi chiese spiegazioni e, già solo guardandomi in faccia, capì che si era trattato di uno scherzo di qualche buontempone, perché ero meravigliato e pure un po’ intimorito. Gli dissi: «Io so’ forte, ma non so mica scemo. Te pare che dico una cosa del genere?». E ci mettemmo a ridere.
In effetti … sotto i suoi colpi avevano capitolato pugili come Mazzinghi e Griffith. Hai fatto bene a mettere in chiaro! Ma veniamo al canottaggio di Galeazzi. Tu dici che portavi i cappuccini, eppure a Monaco ti affidarono la cronaca …
Ero nello staff della RAI alle Olimpiadi di Monaco, certo, ma non mi aspettavo di fare più di quello che facevo a via del Babbuino. La cronaca era appannaggio dei professionisti. Ad un certo punto, però, accadde qualcosa che fece la mia fortuna: mi chiamò al telefono Bortoluzzi, quello del Calcio Minuto per Minuto, e mi disse che Mirko Petternella, che era il titolare della cronaca del canottaggio, non era disponibile per la diretta, perché impegnato a commentare una competizione di scherma, dove c’era un italiano in finale. Dovevo andare in onda io. Ero terrorizzato. Mi disse che mi avrebbe chiamato e io gli avrei dovuto dire quello che vedevo. Mi misi seduto, passò la sigla di Radio Olimpia, e mi diedero la linea, chiedendomi di dire come stesse andando il canottaggio. Non riuscivo ad iniziare. Dissi: «Qui c’è molto vento e le bandiere sembrano di legno». Ero nel pallone. «Vai avanti, vai avanti» mi dissero e, da quel momento, non mi fermai più. Ovviamente, ci misi del mio, sia sotto il profilo tecnico – i cronisti del canottaggio, ad esempio, ancora parlavano di corsia e non di acqua - sia sotto il profilo del carattere. Ricordo che, quando tornai in redazione temevo di non essere piaciuto; invece, si avvicinò Moretti e mi disse «Benvenuto tra noi». Capii che ero diventato un radiocronista.
Poi arrivò la televisione …
Quando passai alla televisione, Moretti fu contrariato. Ameri, invece, che mi trattava come un figlio, mi prese da una parte e mi disse: «Vai! Qui sei il numero 35, lì puoi diventare il numero 1». E così è stato.
Alcune tue telecronache sono rimaste storiche. I campionati di Sydney del 2000, ad esempio …
«Andiamo a vincere» è l’apice di una telecronaca al cardiopalmo che feci seguendo l’entusiasmante gara di Antonio Rossi e Beniamino Bonomi sui mille metri in K2. Come hai ricordato tu eravamo a Sydney nel 2000. Fu travolgente. Guarda, è la prima volta che lo dico, ho apprezzato e vissuto molto le gare dei fratelli Abbagnale, ma questa di Rossi e Bonomi, forse per il mio passato di canoista, è stata la gara che tecnicamente ho sentito di più. Erano in quattro, a pettine; la gara era emozionante e, praticamente, io stavo lì a pagaiare con loro.
È stato ed è tuttora travolgente. Non riesco a non emozionarmi ogni volta che rivedo quella gara
Forse è così emozionante perché io stesso ero emozionato in modo assolutamente autentico. Alla fine della telecronaca non avevo più voce e mi sentivo come se avessi gareggiato. So che molti telecronisti stranieri raccontarono di un collega italiano che era impazzito per la vittoria di un armo azzurro! «Andiamo a vincere», da quel momento, divenne uno slogan e lo usai anche con gli Abbagnale e con altri canottieri, ma nacque con il K2 di Sydney.
Ecco. I fratelli Abbagnale, immensi campioni, con il mitico timoniere Peppiniello Di Capua. Loro hanno rappresentato una costante delle tue telecronache entusiasmanti.
Sicuramente, la popolarità delle mie cronache è legata anche ai grandi campioni che ho avuto la fortuna di commentare. I fratelli Abbagnale e Peppino Di Capua, soprattutto. Io li ho raccontanti, portandoli all’attenzione del grande pubblico, anche fuori dalla cerchia di appassionati del canottaggio; loro però vincevano e vincevano alla grande, rendendo possibili quelle cronache.
«La prua è italiana, la prua è italiana!». Quasi un grido di battaglia.
«La prua è italiana», fu quello che esclamai dopo il loro oro olimpico a Seul, nel 1988. Poi ci furono anche altre frasi famose; ad esempio «Non li prendono più, non li prendono più …» e «Non c’è più tempo per morire». Non sono mai state frasi preparate a tavolino; sono il frutto del mio entusiasmo, della mia partecipazione emotiva, del mio vedere quelle prue disputarsi l’oro.
Remavi con loro
Ho sempre seguito con grande partecipazione le gare di canottaggio; sì, in qualche modo salivo in barca ancora, sentivo nelle mie mani i remi, il ritmo dei colpi, il fiato serrato. Commentando quella gara c’è mancato poco che muovessi le braccia impugnando un remo immaginario eppure assolutamente reale. Dico sempre di essere stato il terzo vogatore nel loro “due con”.
A proposito del modo travolgente in cui raccontavi al pubblico le gare di canottaggio, ci fu chi disse che avevi tre anime. Perché?
Che te sei andata a ricorda’, Raffae’!
Io studio, prima delle interviste …
Fu il grande Sandro Petrucci, allora vicecaporedattore del TG1. Disse che avevo una triplice personalità: quella pop delle interviste a bordo campo nel calcio, quella british – romanesca, delle telecronache del tennis, e quella travolgente del canottaggio, dove mettevo in gara una parte di me insieme agli atleti.
E la passione per il tennis come è nata?
Grazie al Circolo Canottieri Roma, il nostro Circolo. Al tempo c’era stata una trasmigrazione di parecchi tennisti di alto livello dal Parioli di viale Tiziano al Canottieri Roma. Tra questi anche l’amico Nicola Pietrangeli. E, tu sai come funziona lì, si organizzavano i tornei, si giocava tanto e si giocava bene. Anche io ero un discreto tennista. La passione è arrivata in quei giorni e così la conoscenza di questo sport. Devo molto anche a Nicola Pietrangeli e ai suoi consigli …
Nicola è una persona meravigliosa. Ne approfitto per salutarlo. Sempre gentile, sorridente …
Ricordo quando, ancora agli esordi in questo sport, mi mandarono a commentare un incontro tra Lendl e Panatta, acerrimi nemici. Ero un po’ in ansia perché, in un simile contesto, si rischiava di fare torti, aprire ferite. Chiesi a Nicola e lui mi disse di adottare lo stesso stile della BBC: parlare poco per sbagliare poco.
Restiamo in tema Panatta. Se non sbaglio vi fu un episodio molto divertente di cui l’Adriano nazionale fu protagonista in Spagna, un fuori onda abbastanza particolare
L’episodio a cui ti riferisci risale al 1977, l’epoca dei quattro Golden Boys italiani: Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli. Ero agli esordi come telecronista e mi trovavo a Barcellona per la finale della zona europea di coppa Davis Spagna-Italia.
Insieme a Guido Oddo dovevamo fare le interviste in campo e il servizio per la Domenica Sportiva. Il vecchio Orantes, tutto acciaccato, carico di gloria e di guai fisici, non ce la fece ad opporsi allo squadrone azzurro e l’Italia vinse facile. Ma ci fu un incidente che ricordo con grande nitidezza e di cui si parlò poco. Panatta, che non voleva giocare a punteggio ormai acquisito, irritato dal pubblico, che non stava risparmiando critiche assai pesanti contro gli azzurri, si gettò sugli spalti e scoppiò una rissa: Panatta contro tutti. Solo la polizia riuscì a sedarla. Naturalmente, io, che dovevo fare le interviste in campo, ero pronto a commentare il fuori programma, ma la televisione spagnola, senza dire nulla, interruppe le trasmissioni. Convinto di essere andato in onda, telefonai in redazione e chiesi: «Come sono andato?», ma la risposta mi gelò: «Qui non si è visto niente; anzi, mandaci il servizio». Allora pregai l’Eurovisione di darmi le immagini della scazzottata italo-spagnola e riuscii a completare il servizio. Il tennis mi ha dato grandi soddisfazioni e mi sono divertito molto a seguirlo. Nonostante tutto, però, è un ambiente in cui sono sempre stato accettato a mezza bocca. Venivo dal canottaggio; lì ero bravo. Era difficile accettare che potessi essere bravo anche nel tennis.
E tu gli hai restituito il favore. Se non erro ci fu un giorno in cui mollasti a metà una telecronaca di tennis per correre allo stadio Olimpico … Come andò?
Era il 2000, anno storico per il calcio biancoceleste. Io ero al Foro Italico per commentare gli Internazionali di Tennis. Stavo vedendo un incontro abbastanza noioso tra due spagnoli. Tenevo un orecchio alla radio: si stavano disputando le partite chiave di quel campionato. La Juve stava inaspettatamente perdendo a Perugia e la Lazio aveva appena vinto con la Reggina all’Olimpico. Se fosse stata confermata la sconfitta della Juve lo scudetto sarebbe stato della Lazio, la mia Lazio. Non riuscii a resistere. Rischiando il licenziamento, mollai tutto e corsi verso l’Olimpico insieme all’operatore video, laziale anche lui, che era lì per le interviste in campo. Strada facendo incontrammo un frate che mi disse, entusiasta, che avevamo vinto lo scudetto. «Grazie a Dio!» risposi continuando a correre verso lo stadio. Quando arrivammo, ci accorgemmo che non c’erano colleghi Rai: erano tutti a Perugia per quello che sembrava uno scudetto scontato, per la Juve. Invece lo scudetto era a Roma, all’Olimpico, ed era biancoceleste! Il mio fu l’unico servizio Rai dall’Olimpico, cosa che solo in parte mi fece perdonare per aver lasciato il tennis a microfono spento negli ultimi minuti di match.
Vedi, sono proprio queste cose che hanno fatto di te un giornalista fuori dal coro e assolutamente amato da tutti gli sportivi: hai sempre presentato lo sport seguendo l’onda del coinvolgimento, dell’emozione del vero sportivo, con un particolare intuito per le immagini da mandare in onda. Non a caso un paio di giorni fa l’Unione Stampa Sportiva Italiana ti ha assegnato il prestigioso premio Tosatti.
È stato un grande onore, sì. Un premio importante, intitolato, peraltro, a Giorgio Tosatti, con il quale lavorai alla Domenica Sportiva. Un grande giornalista. Non un carattere facile, però. Un giorno mi chiese il motivo per cui facessi lo stupido a Domenica In, quando, invece, ero un bravo e serio giornalista. Lì per lì ci rimasi male. Gli dissi che si poteva fare benissimo il giornalista e l’uomo di spettacolo. L’importante era tenere distinti i due ruoli, sapersi relazionare con due diversi tipi di pubblico. Però tenni in considerazione quello che mi disse e devo dire che mi tornò molto utile, più in là nel tempo; non ho mai smesso di ringraziarlo per questo. Ricevere il premio Tosatti, dunque, è stato davvero un onore.
C’è anche un altro scudetto storico, tra le tue telecronache, quello del Napoli nel 1987. Riuscisti ad intrufolarti negli spogliatoi e … cosa accadde?
Entrai negli spogliatoi grazie al massaggiatore personale di Maradona e raggiunsi Diego Armando, chiudendomi con lui in una specie di sgabuzzino del San Paolo. Lasciammo fuori tutte le troupe mondiali che pressavano per entrare. In questo modo non solo ottenni le sue prime impressioni, la sua prima intervista sullo scudetto appena conquistato, ma lo convinsi ad intervistare i suoi stessi compagni di squadra, gioco a cui Diego si prestò volentieri, perché la cosa lo divertiva. Ne uscì fuori un servizio di 18 minuti assolutamente storico, uno scoop, un pezzo originale e accattivante. Quando uscii, gli altri colleghi della stampa, che non erano riusciti ad entrare, mi avrebbero volentieri linciato.
Ma è vero che i poliziotti spagnoli ti presero a manganellate mentre esultavi per il mondiale italiano del 1982?
È vero. La cosa mi fa ancora ridere. Stavo abbracciando Paolo Rossi, che avrei intervistato di lì a poco, ma, per la differenza di altezza tra noi due, Paolo mi stava sotto l’ascella. Contemporaneamente saltavo e gridavo «Campioni del Mondo». I poliziotti spagnoli, pensando che stessi aggredendo Pablito, cominciarono a manganellarmi. Peccato, che quell’intervista con Rossi non andò mai in onda, in quanto la bobina andò persa. Con Rossi ne parliamo spesso.
Il tuo era un giornalismo d’assalto, ma anche fantasioso, divertente, a volte persino irriverente, sebbene sempre con simpatia. Un giorno, in una delle tue interviste, chiedesti ad Agnelli se, in Italia, ci fossero più juventini o più democristiani …
Sì, è vero. Pensavo che mi avrebbe buttato fuori. Invece, sorrise e mi rispose, con il suo tipico aplomb e l’immancabile erre moscia: «Mi documenterò e le farò sapere». Dopo di che mi invitò a cena con Platini e il resto della Juventus. L’Avvocato, come suo costume, mangiò poco, in modo sano; io, puoi immaginare, mangiai di gusto. Alla fine della cena mi disse: «Vedo che l’appetito non le manca»
Com’è cambiato il mondo del giornalismo sportivo? Durante le ultime Olimpiadi di Rio 2016, ad esempio, hai evidenziato commenti un po’ discutibili, cronache poco accattivanti. Il tuo parere di esperto? C’è ancora la professionalità e la preparazione di un tempo?
Sicuramente è cambiato il sistema di informazione. Ai tempi miei c’era il piccione. Non c’erano computer, non c’era niente. Adesso i giornalisti sono molto informati, più informati di noi, sanno tutto, però commettono spesso l’errore di bruciare le tappe, di non farsi un’esperienza
Roberto Fazi, grande giornalista della Gazzetta dello Sport e mio maestro quando dirigeva Boxe Ring, di questi giornalisti, come dei pugili che vincevano facile per poi perdere miseramente al primo vero incontro, diceva che erano arrivati alla ciliegina senza passare per la torta …
Bella questa! È proprio così. Non hanno avuto il tempo di maturazione del mestiere. Si buttano subito nella mischia e questo, a volte, li porta a sbagliare, come accaduto ad alcuni a Rio 2016, oppure a fare pezzi senza mordente
Forse anche senza cuore
Beh, sì. O, come dico io, con il cuore di plastica. È vero anche che il cuore o ce l’hai o non ce l’hai. Ci devi nascere. Però è il cuore a dare al giornalista quel qualcosa in più che lo fa uscire dal coro. A volte li sento urlare artificialmente. Non tutti, per fortuna. Ce ne sono anche di molto bravi.
Tu sei famoso per aver dato molti soprannomi fortunati agli atleti, ai colleghi, agli amici; anche a me, visto che mi hai chiamata Principessa del Fiume, soprannome che mi ha portato bene
Principessa del Fiume! Lo ribadisco. Brava canottiera, t’ho visto remare, e brava scrittrice, con quel tuo bel libro dedicato ai delitti sul Tevere che ho avuto l’onore di presentare.
Adoro questo soprannome … Quali altri hai dato?
Flipper! Chiamai Flipper Agassi, perché giocava come un flipper. Chiamai Garellik Claudio Garella, il portiere del Verona campione d’Italia, che faceva parate impossibili. Potremmo stare qui fino a domani …
Però anche tu hai avuto un soprannome che ti ha portato fortuna: Bisteccone. Fu Evangelisti a chiamarti così, o Mara Venier negli anni di Domenica In?
Il primo fu Evangelisti. Un giorno dovevo fare un doppio di tennis all’Eur con il Consocio Venturini, che lavorava nella redazione del Giornale Radio in via del Babbuino. Lo aspettai quasi due ore sotto il suo ufficio. Eravamo irrimediabilmente in ritardo, per l’incontro di tennis. Venturini mi raggiunse e disse: «Ormai ci avranno dato scratch. È inutile andare. Vieni su che ti presento ai miei colleghi». E così misi piede per la prima volta nella redazione del Giornale Radio. Quando entrai, tutto tirato, alto com’ero, Evangelisti si girò e mi disse: «E ‘sto bisteccone chi è?». Anche Mara Venier mi ha chiamato bisteccone, ma il primo fu lui. È un soprannome a cui sono molto legato; un’espressione tipicamente romana che denota apprezzamento per un fisico importante.
Hai scritto molti libri, tutti interessanti. Tra i più recenti, L’Inviato non Nasce per Caso, edito da EriRai nel 2016, dove ripercorri le tappe della tua carriera giornalistica, gli incontri, gli aneddoti, le grandi cronache, E Andiamo a Vincere, edito da Limina nel 2014, dove racconti la gloriosa storia dei fratelli Abbagnale, Il Magnifico Miglio, edito da Bideri sempre nel 2014, un libro sul Tevere tra storia, ricordi e Circoli storici, scritto con Enrico Tonali, giornalista de Il Tempo e storica voce del canottaggio. Hai altri progetti editoriali in corso d’opera?
Sì. Ho intenzione di scrivere un libro che partirà dai miei ricordi ma non sarà un libro di ricordi. Non voglio svelare nulla. Tu, però, il progetto lo conosci bene, visto che ti ho proposto di scriverlo a quattro mani con me.
Un grande onore. Ovviamente anche io serbo il silenzio sul contenuto. La scrittrice prevale sulla giornalista, in questo caso. Il Direttore del giornale mi perdonerà.
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È stata proprio una bella chiacchierata, Gian Piero. Grazie per il tuo tempo e per la tua grande generosità di vero sportivo e di grande giornalista. Parlando con te mi sento come quando faccio rafting in Alto Adige: un fiume in piena di episodi, di aneddoti, tanto divertimento, ma anche tanto, tantissimo da imparare.
© di Raffaella Bonsignori
[InLibertà.it, 24.05.2018]