Raffaella Bonsignori

Il comunismo, Togliatti e i nostri prigionieri in Russia

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Il comunismo, Togliatti e i nostri prigionieri in Russia

Raffaella Bonsignori
Pubblicato da Raffaella Bonsignori in Storia · Martedì 18 Giu 2024
Decine di migliaia di soldati non tornarono dalla campagna di Russia. Molti di coloro che avevano superato indenni il rigore dei ghiacci caddero nelle mani dei rus­si, desiderando di non essere mai nati: «Le notti scivolano via eguali, interminabili, pesanti» scrive Ghe­rardini dalla prigionia.
La prigionia comunista prevedeva un percorso di progressiva disu­manizzazione: violenze e soprusi costanti. La notte non era mai notte fino in fondo: a volte ci si svegliava per il rumore della morte. Qualcuno, un amico, veniva ucciso. Senza un perché. Per il gusto di uccidere e di non lasciare a nes­suno neppure un vago senso di riposo, racconta Gherardini. Ma sono sempre morti da eroi, gli ita­liani. Lo testimoniano i sopravvissuti. E, poi, c’era il freddo, la dis­senteria, le infezioni, la fame. Fame nera. Fame che ha condotto alcuni verso il cannibalismo della sopravvivenza più disperata. Racconta Ruggero Quintavalle:

«Sto facendo la mia ispezione quando l’odore caratteristico della carne arrosto mi solletica l’olfat­to. […] Dietro un bunker ci sono tre rumeni. Accoccolati in terra stanno intorno al fuoco. […] Ap­pena mi scorgono, tentano di fuggire, ma io e gli altri che sono con me riusciamo a fermarli. Ini­zia così un interrogatorio piutto­sto stringente che ci dà la possibilità di stabilire che si tratta di carne umana»
 
Molti prigionieri, poi, sono stati catturati nelle maglie della «rie­ducazione» stalinista, modulata su quanto avveniva nei campi di prigionia di Lenin. “Rieducare” era il termine sovietico per dire in­dottrinare, lavare il cervello, asservire, spersonalizzare, creare au­tomi in grado di obbedire e di portare avanti caparbiamente l’ideo­logia del padrone, dell’educatore.
Alcuni soggetti vengono re­clutati in qualità di commissari istruttori, con tanto di divisa e pistola. Questi, a loro volta, sempre sotto stretto con­trollo sovietico, devono indottrinare i loro con­nazionali, usando anche la violenza, se refrattari, senza limite di crudeltà. Molti di loro sono dei veri e propri aguzzini. Devono convincere i prigionieri che il bianco sia nero, dai più piccoli parti­colari quotidiani ai grandi eventi della storia; e devono farlo ad ogni costo. Il ribaltamento della verità tocca qualunque cosa. Comincia a circolare l’assioma che la radio è stata inventata da Aleksandr Popov e non da Gugliel­mo Marconi. Un marconista, scherzando a bassa voce, dice ai suoi amici che avreb­bero dovuto chiamarlo popovista. Tra i commissari istruttori figura anche tal Edoardo D’Onofrio. Un nome da tenere a mente.
Allettandoli con vantaggiose condizioni di vita, gli istruttori reclutano kapo tra i prigionieri; e sono terri­bili:

«[…] Gli italiani che sono andati a scuola di comunismo (sono) tutti impestati per farsi belli davanti ai russi. Sono peggio dei russi», scrive Nuto Revelli.
 
Uno dei peggiori, dei più crudeli è tal Antonio Mottola, che già nel cor­so della Campagna di Russia si era comportato in modo spregevo­le, arrivando a rubare ai commilitoni moribondi. A causa sua molti italiani subiscono atroci torture. Ma la delazione non è il solo modo per punire i non comunisti. Arrigo Petacco riporta un episo­dio illuminante. Il commissario istruttore Edoardo D’Onofrio, al termine di una “lezione politica” chie­de ai prigionieri chi di loro non fosse d’accordo. Si alza il capitano valtellinese Franco Magna­ni e la cosa gli costerà undici anni di detenzione nell’inferno russo.
Migliaia di italiani dell’Armir hanno trovato orrenda morte nei gu­lag di Stalin e più si approfondi­scono le disumane condizioni in cui furono tenuti, più appare oltremodo spie­tata la famosa lettera scritta da Palmiro Togliat­ti, allora Segretario del Ko­mintern; lettera datata 15 febbraio 1943, quando si stimavano ancora in cinquantamila circa gli italia­ni prigionieri di Stalin, e indirizzata a Vincenzo Bianco, sempre del Komintern, il quale gli ave­va chiesto un intervento in favore degli italiani prigionieri. Intervento negato, perché la loro morte avrebbe finalmente convinto le famiglie a staccarsi dall'ideologia fascista:

«L'altra questione sulla quale sono in disaccordo da te è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te, o quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso la Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fat­to, non ci trovo assolutamen­te niente da dire. Anzi. E ti spiego il perché. Non c'è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperiali­sta e brigantesca del fascismo. Non nella stessa misura che il po­polo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghe­sia e degli intellettuali, è penetra­to nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mus­solini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tra­gedia, con un lutto personale, è il migliore e il più efficace degli antidoti.
Quanto più larga­mente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione con­tro altri paesi significa rovi­na e morte per il proprio, significa ro­vina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto me­glio sarà per l'avvenire d'Italia. I massacri di Dogali e di Adua furono uno dei freni più potenti allo sviluppo dell'imperialismo italiano, e uno dei più potenti stimoli allo sviluppo del movimento socialista.
Dobbiamo ottenere che la distruzione dell’armata italiana in Russia abbia la stessa funzione oggi. In fondo, coloro che dicono ai prigionieri, come tu mi riferi­vi: «Nessuno vi ha chiesto di venire qui, dunque non avete niente da lamentarvi», dicono una cosa che è profondamente giusta, anche se è vero che molti dei prigio­nieri sono venuti qui solo perché mandati.
È difficile, anzi impos­sibile, distinguere in un popolo chi è respon­sabile di una politica, da chi non lo è. Soprattutto quando non si vede nel popolo una lot­ta aperta contro la politica delle classi dirigenti.
T'ho già detto: io non sostengo af­fatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in un altro modo; ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espres­sione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva esse­re immanente in tutta la sto­ria»

Questa lettera di Togliatti fu al centro di un caso giornalistico che merita di essere brevemente rac­contato, onde fugare qualsiasi dubbio sulla sua autenticità. Nel 1992, dopo l’apertura degli archi­vi sovietici, emerge da un passato orribile questa scomoda, tanto scomoda lettera, di cui in via delle Botteghe Oscure, misteriosa­mente, non erano mai stati a conoscenza. Lo scoop giornalistico è della rivista Panorama, che pubblica la lettera così come dettata dallo storico Franco Andreucci, profes­sore di Storia Contempora­nea all’Università di Pisa, esperto di storia del socialismo, del mar­xismo e del Partito Comunista Italiano, curatore, per Editori Riu­niti, di un volume sulle Opere di Palmiro Togliatti, autore di diver­si libri sul comunismo ed egli stesso simpatizzante del PCI per molti anni. Un esperto. Un esperto di sinistra, fuori, dunque, da ogni sospetto di manipolazione propagandisti­ca di parte avversa. La fotocopia della lettera manoscritta fornita dagli archivi sovietici al prof. An­dreucci è in parte illeggibile e lo storico, dunque, prov­vede ad interpolarla, inserendo parole sue, sempre, però, nel ri­spetto del senso generale.
La sinistra italiana, ovviamente, colpita nel vivo da quella mostruosità a firma di Togliatti e proprio nei giorni in cui il centrodestra stava prendendo forza, grida allo scan­dalo. Si parla di strumentalizzazione elettorale tra­mite una “fal­sa lettera di Togliatti”; poi, di fronte all’evidenza, os­sia all’autenticità della lettera, si passa a parlare di “falsificazione” di una parte di essa, riferendosi alle interpolazioni di Andreucci.
Lo storico am­mette i suoi interventi, ma insiste a dire che il senso della lettera non cambia. Ha inserito “assassi­nare” al posto di “sopprimere”, ad esempio. Considerato che “sopprimere” è verbo che si usa anche per le bestie, con “assassinare” ha forse reso mag­giore dignità ai nostri soldati. Da qui all’idea di “falsificazione” ne corre.
Il presidente Cossiga, a quel punto, si fa dare l’originale dagli ar­chivi sovietici. Niente fotocopie fuorvianti, niente interpolazioni e correzioni. La lettera di Togliatti, in tutta la sua nuda e cruda disu­manità, viene analizzata da esperti e depositata presso l’Archi­vio di Stato italiano, cristallizzando una volta per tutte la questio­ne: quello che ha scritto Togliatti è lì, nero su bianco.
Non è un fal­so.
False, nella versione pubblicata da Panorama, erano solo alcune parole sostituite dallo storico Andreucci, ma senza intaccare il senso generale delle argomentazioni togliattiane.
Nilde Iotti, storica compagna di Togliatti non solo di partito, inter­viene su L’Unità, dando del «vol­gare imbroglione» ad Andreucci e affermando:

«Hanno dimostrato che quei documenti erano perlo­meno falsificati. E credo che chi è in buona fede abbia capi­to»
 
Come se la “falsificazione”, ossia l’inserimento della parola “assas­sinare” al posto di “sopprimere” et similia possa aver purifi­cato il documento, improvvisamente diventato un contenitore di buone idee da «dama della Croce Ros­sa», come si definisce lo stesso To­gliatti tra quelle righe.
Ebbene, la lettera qui riprodotta è fedele all’originale depositato presso l’Archivio di Stato, che, peraltro, è parimenti fedele a quella pubblicata su L’Unità del 15 febbraio 1992.
Leggerla è un pugno nello stomaco. Soprattutto nei passi eviden­ziati presenta una ine­narrabile crudeltà, una freddezza senza pari, una diabolica manifestazione di utilitarismo nei con­fronti dei nostri soldati prigionieri: loro servono lì.
In buona so­stanza Togliatti afferma: non dico che i nostri prigionieri in Russia debbano essere soppressi, ma che siano lì a subire mille tormenti ed eventualmente a morire torna utile alla causa comunista, poi­ché scuote loro e le loro famiglie, scuote gli italiani e si spera li por­ti a valutare negativamente Mussolini e il fascismo, cui sono ancora legati.
Credo che i brividi vengano a qualunque uomo legga questa lette­ra a prescindere dal suo orientamento politico, perché non c’è politi­ca che possa giustificare simili azioni se non afferente ad una sfera di totale disumanità.
Forse Togliat­ti poco avrebbe potuto fare per quei cinquantamila alpini, per quei cinquantamila uomini, per quel­le cinquantamila anime, ma anche quel poco evitò di farlo e spiegò la sua brutale, spietata inerzia con l’esigenza di allontanare dal fascismo il popolo ancora fedele ad esso. Quello stesso popolo cui, in seguito, avrebbe fatto appello per appoggiare l’antifascismo comunista.
A guerra finita l’atteggiamento di Togliatti non muta. Il PCI non vuole che i prigionieri rientrino: sono fonti dirette di quello che realmente significa il comunismo. Togliatti, pertanto, cerca di ri­tardare il rientro il più possibile, sebbene tolleri che venga manda­ta una delegazione in Russia per va­lutare la condizione dei prigio­nieri.
I Russi pilotano la delegazione in un solo campo, quello di Suzdal. E impongono regole: i mem­bri della delegazione avrebbero visitato solo quel Campo, per l’occasione rimesso a nuovo, con divieto assoluto di parlare con i prigionieri. Tra i membri della delegazione c’è una tal Contini, la quale, evidentemente predisposta per natura alla “rieducazione” stalinista, beve la propaganda co­munista come fosse vino prelibato e si lascia inebriare da essa, descrivendo entusiasticamente l’ambiente salubre e decoroso in cui vengono tenuti i prigionieri, con una cucina in cui vengono preparate succose bistecche per nu­trirli. Ovviamente, da quel giorno in poi, i prigionieri chiame­ranno “bistecca alla Contini” la zuppa di cavoli e ortiche, spesso acida, che viene servita loro come unica fonte di sostentamento.
A novembre del 1945, tuttavia, su iniziativa sovietica e senza che Togliatti venisse informato, ini­ziano a tornare i primi prigionieri, quelli “inutili” agli scopi sovietici di fidelizzazione al comunismo, quelli resistenti all’indottrinamento. Sono inevitabilmente portatori di una verità molto scomoda per la sini­stra italiana. Sono avvelenati contro il comunismo. A ragion veduta, si di­rebbe.
Molte delle loro azioni vengono taciute dalla stampa, per evitare che si diffondano certe idee, e si ri­trovano solo in rapporti della polizia, come quello di S. Marinella del 29 novembre 1945:

«Durante la sosta in questo scalo di circa millecinquecento reduci dalla Russia, vari gruppi di reduci per­corsero le vie dell’abitato e cancellarono le scritte comuniste. Un gruppo, staccata l’insegna della sezione del PCI, la frantumò. Il giorno seguente i partiti di sini­stra organizzarono una manife­stazione di protesta. Presenti circa duecento persone in maggio­ranza fatte affluire appositamente con autocarri da Civitavec­chia».
 
Il Partito Comunista Italiano sta fronteggiando un bel pericolo e fa pressioni su Mosca affinché il rimpatrio avvenga in modo più con­trollato, come afferma la storica Elena Aga Rossi sulla base dei do­cumenti da lei analizzati, tra i quali spiccano comunicazioni scritte dell’ambasciatore Kostylev al Ministro degli Esteri Molotov anche per conto di Togliatti, il quale, così si legge,

«vorrebbe in primo luogo vede­re in Italia quei prigionieri che hanno assunto nei campi una sincera posizione democratica e hanno dimostrato l’atteggiamento più responsabile».

E ancora:

«Ercoli
[nome in codice di To­gliatti] chiede di mandare in Italia se non tutti, almeno la parte migliore degli ufficiali prigionieri di guerra che hanno concluso la scuola antifascista».

Questa campagna non già antifascista bensì anti-italiana del PCI, purtroppo, ha il suo seguito in Russia, e molti vengono trattenuti.
Alla vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948 l’aria è infuocata: da un lato il PCI, che vuole trasforma­re l’Italia in un satellite di Stalin, dall’altra la Democrazia Cristiana. Ebbene, in tale clima, tre redu­ci, Luigi Avalli, Ivo Emett e Domenico Dal Toso, pubblicano un pamphlet Russia, nel quale accusa­no di orrendi crimini contro gli italiani prigionieri il comunista Edoardo D’Onofrio, commissario istruttore nei gulag. La DC dà a questo scritto la massima diffusio­ne, ovviamente.
Come replicare? si chiede la sinistra. Due giorni prima delle elezio­ni D’Onofrio li querela. Una mos­sa azzardata, vista la mole di testi­moni che i tre avrebbero potuto produrre, ma il tempo delle elezion­i stringe e qualcosa deve essere fatto per recuperare credibi­lità. Peraltro, se la sinistra vincesse le elezioni, si smonterebbe fa­cilmente l’intera vicenda. Ma così non è. La sinistra non vince le ele­zioni e la vicenda non si smonta. Inizia il processo e le cose si mettono malissimo per D’Onofrio, tanto che questi cerca di in­fluenzare le testimonianze. È ancora una volta il carteggio dell’ambascia­tore Kostylev a scoprire gli altarini. In merito alla te­stimonianza pesantissima di don Enelio Fran­zoni, cappellano della Pasubio e medaglia d’oro al valore, Kostylev dice, come riportato da Petacco:

«Il compagno Robotti [cognato di Togliatti] ha consi­gliato il compagno D’Onofrio di non ricusare il Franzoni come te­stimone per poter finalmente sapere dove si nasconde, seguirlo e farlo fuori».

Il 21 giugno 1949 il processo termina con l’assoluzione dei tre que­relati e la condanna alle spese per D’Onofrio. Tempo dopo l’avvo­cato Mastino Del Rio, difensore dei tre imputati, riferisce alla stampa una frase agghiacciante che gli sarebbe stata sussurrata da D’Onofrio al termine delle arrin­ghe difensive:

«Avete fatto male ad insistere sulla mia condanna [alle spese processuali]. Se sarò condannato, non staranno meglio quelli che sono rimasti in Rus­sia».

Il tempo passa. D’Onofrio proseguirà la sua carriera politica in seno al PCI, venendo eletto con 425.000 voti e ricoprendo anche il ruolo di vicepresidente della Camera. L'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) lo descriverà come «uno dei dirigenti comunisti più amati a Roma e in Italia» e Paolo Bufalini, nella prefazione al libro di D'Onofrio Per Roma, ne parlerà come di un uomo «ricco di umanità».
Nel frattempo il problema dei prigionieri in Russia è lungi dall’essere risolto. Ottantamila i disper­si, diecimila i rimpatriati. L’Italia non è nella posizione di fare la voce grossa, continua a ri­petere l’URSS; e molti politici anche democristiani tollerano. Alcu­ni, a giustificazione dell’inerzia nel recupero, creano mondi paralleli dove «tutto considerato» le cose non stanno andando male.
I russi snoccioleranno gruppi di italiani sulla via del ritorno fino agli anni Cinquanta. L’ultimo tre­no prigionieri dalla Russia arrive­rà il 12 febbraio 1954 e porterà a casa dodici uomini.
Gli altri, quelli che non sono mai tornati, ancora oggi li chiamiamo dispersi.

© di Raffaella Bonsignori
[Tratto da “Lettere dal Don” di Raffaella Bonsignori, in AA.VV. Scripta Manent. Storie di mittenti e destinatari, Amazon Pub., 8.12.2022- S.I.A.E.]

© Foto di pubblico dominio

Per saperne di più:
Elena Aga Rossi – Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Il Mulino, Bologna, 1997
Francesco Bigazzi - Evgenij Zhirnov, Gli ultimi 28. La storia incredibile dei prigionieri italiani dimenticati in Russia, Mondadori, Milano, 2002
Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Mursia, Milano, 1973
Gabriele Gherardini, Morire giorno per giorno, Mursia, Milano, 1966
Arrigo Petacco, L’Armata scomparsa. L’avventura degli italiani in Russia, Mondadori, Milano, 1998
Ruggero Quintavalle, Un soldato racconta, Tipografia Operaia Ro­mana, Roma, 1960
Nuto Revelli, L’ultimo fronte, Einaudi, Torino, 1971
Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Einaudi, Torino, 1965
Pino Scaccia, Un inverno mai così freddo, Tralerighe Libri, Lucca, 2020


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