Il Festival dei Freaks
Pubblicato da Raffaella Bonsignori in Cinema e Tv · Lunedì 12 Feb 2024
Non ho visto Sanremo. Delle canzoni in gara so solo quello che entra a forza nelle mie orecchie se accendo la radio, ma riesco ad arginare il tutto abbassando il volume. Non me ne piace nessuna. Forse perché sono antica; forse perché i miei ascolti vanno da Togliani, Rabagliati e il Trio Lescano, che sentivo insieme a mio nonno, ai cantanti che appartengono alla mia infanzia e alla mia adolescenza, ossia Battisti, Mina, Pink Floyd, Jethro Tull, Emerson, Lake & Palmer …
Le immagini, però, non riesco a fermarle più di tanto. Invadono sistematicamente il web. Inutile dire che neanche quelle mi piacciono. Sono poco edificanti, non tanto per chi guarda, ma per chi ne è protagonista. In buona sostanza, molti degli artisti che si sono avvicendati sul palco di Sanremo mi fanno tanta pena.
Novalis disse che diventare un essere umano è un'arte. Partirei da lì.
L’arte racchiusa nell’essere e non nell’apparire.
Nascere significa entrare nell’esistenza, iniziare ad essere. La vita dell’artista di Novalis consiste nel crescere senza abbandonare questo semplice assioma. Purtroppo sembra un assioma volatile, ultimamente. Si dissolve facilmente nell’aria e l’essere diventa apparire, ossia voler essere altro da ciò che si è, indossando una maschera. La cosa non sarebbe sbagliata se l’essere diverso da ciò che si è avesse comunque a che fare con la propria natura. L’impressione che si ricava dalle maschere volgari che hanno sfilato a Sanremo, però, è tutt’altra. È stato il trionfo di un apparire fine a se stesso, o, meglio, di un apparire che copre la mancanza dell’essere.
«Da solo, per la mia sola arte, non sarei in grado di generare interesse, dunque mi maschero, scandalizzo e faccio parlare di me»
Le maschere sono l’espressione prima del condizionamento sociale; raccontano un ruolo da interpretare, un ruolo scritto da altri, voluto da altri, imposto da altri. La maschera, dunque, rappresenta non l’essere e nemmeno il voler essere, ma la finzione dell’essere in base a dettami esterni, a volte ripetuti in lunghi discorsi infarciti di banalità politicamente corrette. Già, Sanremo è diventato anche questo ultimamente: un palco dal quale artisti di varia forgia fanno discorsetti “moralizzanti”, che, a volte, celano abiure. In questo caso pare tendano a vestirsi più sobriamente: del resto devono chiamare attenzione sulle parole. Le parole sono la loro maschera.
L’odore di decadenza satura l’aria. E la maschera diventa marionetta. L’autenticità viene meno, il nucleo vitale, quello che gli psicologi chiamano “centro”, si sposta, e la marionetta non riesce più a fare un passo senza i fili che la muovono. Resta ingabbiata nell’esteriorità, che si tratti di abiti o di chiacchiere.
A pensarci bene, la marionetta è il perfetto inserto nel castone di un’era di robotica estrema, quella dell’anima di plastica e dell’intelligenza artificiale guidata dai magnati dell’industria cibernetica; l’era delle spinte verso la spersonalizzazione, nella quale si sente sempre più facilmente dire di
“essere” una donna che si percepisce uomo, il quale, a sua volta, vorrebbe essere cane, un cane che, però, vive da gatto all’interno di una famiglia queer dove l'uomo si percepisce rigorosamente donna, una donna che anela alla mascolinità, mentre i figli sono neutri.
Ecco cosa emerge dalle immagini sanremesi: un calderone di maschere che con l’arte non hanno niente a che fare; un calderone di personaggi insicuri, a volte inetti, sicuramente incapaci di “essere” se non attraverso i canoni che altri hanno stabilito per loro. Così passiamo da una Bertè che mostra le gambe, sperando inutilmente di assomigliare a Tina Turner, a personaggi che troverebbero posto d’onore in un crudissimo cult-movie di qualche anno fa, “Freaks”.
E, vi prego, non paragonate le pagliacciate contemporanee agli abiti di Paolo Poli o di Renato Zero, perché dimostrereste di non capire niente. Quelle non erano maschere, ma espressioni: mai volgari, mai sciatti, hanno raccontato qualcosa e lo hanno fatto con il proprio cervello, la propria arte, il proprio stile.
Quanto alla gonna da uomo, nulla da ridire. Anche sir Sean Connery, a volte, indossava il kilt. Con ben altro risultato, però. Capisco che la bellezza o c’è o non c’è, ma la classe, quella si può apprendere ed è una lezione saltata da tutti, a Sanremo.
© di Raffaella Bonsignori
[Tutela certificata – S.I.A.E. - 12.02.2024]
© Foto di Raffaella Bonsignori