Raffaella Bonsignori

Oderzo: il trionfo della viltà

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Oderzo: il trionfo della viltà

Raffaella Bonsignori
Pubblicato da Raffaella Bonsignori in Storia · Mercoledì 15 Mag 2024
I testi di storia, quelli veri, quelli estranei alle menzogne dei vincitori, raccontano episodi di violenza e morte sconosciuti ai più. E sono sconosciuti perché quei libri sono stati ostracizzati dalla cultura egemone di sinistra. È necessario parlarne, invece, perché la storia ha bisogno di essere completa per sopravvivere.
Il 1945 vide il Veneto, soprattutto nelle province di Vicenza, Belluno e Treviso, dilaniato da vili atti fratricidi compiuti da assassini mascherati da eroi. Avevano nomi in codice, in perfetto stile stalinista, e trucidarono più di cinquemila persone, tra uomini, donne e bambini.
Un partigiano, che divenne presidente della Repubblica nell’Italia del Novecento, disse che le idee sono tutte da tutelare tranne il fascismo, perché il fascismo è violenza:

«Io sono fedele al precetto di Voltaire: combatto la tua fede che è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi sino al prezzo della mia vita, perché tu possa sempre esprimere liberamente il tuo pensiero. La fede politica dei fascisti, però, la combatto con altro animo. Il fascismo, per me, non può essere considerato una fede politica, perché il fascismo opprimeva tutti coloro che non la pensavano come lui».

E questo la dice lunga sul concetto comunista di libertà altrui, ancorché costui si dichiarasse socialista. La sua, in realtà, era fede politica stalinista, la stessa che il suo grande amico Tito portò avanti con crudeltà estrema, reprimendo nelle foibe ogni dissenso. Toh, proprio quello che, nel suo bel discorso, quel partigiano presidente attribuiva ad una fede politica per lui indegna di tale nome. Il potere della sinistra è sempre stato quello di attribuire al nemico i propri orrori e far finta di combatterli con apparenza democratica.
Ma torniamo in Veneto, il Veneto del 1945; in particolare a Oderzo, una ridente cittadina in provincia di Treviso, perché nella sua memoria esiste una macchia di sangue che non può essere cancellata.
Nella primavera di quell’anno lì sono stanziati gruppi di combattenti di varia estrazione. C’è il CLN, composto da antifascisti desiderosi di pacificazione, e ci sono i “Cacciatori della Pianura”, un reparto partigiano facente parte della divisione garibaldina d’assalto “Nino Nannetti”. Comandante di questo manipolo di assassini è Adriano Venezian, detto “Biondo”, affiancato da Attilio De Ros, detto “Tigre”, e da Giorgio Pizzoli, detto “Jim”. Costoro hanno reclutato anche altri partigiani locali, par loro, comandati da Silvio Lorenzon, detto “Bozambo”. Sono tutti tristemente noti persino tra i partigiani: furti e rapine nelle case della gente del luogo; stupri, sequestri, omicidi, tentate stragi anche a danno di civili. Non si fermano neppure davanti ai propri compagni: Vittorio Premuda, detto “Silvio”, stufo di tanta delinquenza, vuole recarsi a denunciarli, ma gli tendono un’imboscata e lo uccidono.
Un ispettore del CNL, nella sua relazione, scrive:

«Col giugno 1944 cominciano ad affluire elementi di dubbia fama. Atti di violenza a mano armata. Intimidazioni, sfoggio di armi e divise, ruberie … un crescendo impressionante fino alla esasperazione della popolazione. […] Impressione della popolazione: metodo peggiore di quello fascista».

A Oderzo, però, sono di stanza anche alcuni reparti militari della Repubblica Sociale Italiana. Hanno un ottimo rapporto con la popolazione locale, la aiutano in ogni modo, anche con il rifornimento di viveri. Sono tra i moderati voluti da Mussolini e da Gentile nella speranza di far sopravvivere il lato buono del fascismo, il socialismo popolare.
A settembre dell’anno prima, per fare un esempio, la banda del “Tigre” aveva attaccato un comandante tedesco e la sua interprete; la donna era morta nell’agguato. I tedeschi erano pronti a rastrellare dieci partigiani, secondo quella che era una loro ben nota legge di guerra: dieci uomini per ogni tedesco ucciso. È una legge di cui i partigiani avvezzi a lanciare il sasso e nascondere la mano si diranno sempre all’oscuro, perché non si faranno mai avanti eroicamente salvando i rastrellati. Mai. Pensiamo a via Rasella. Ebbene, i fascisti di Oderzo erano intervenuti a tutela dei partigiani, portando i tedeschi a mitigare notevolmente la rappresaglia, sicché questi ultimi si erano vendicati solo su due partigiani. Due di troppo, certo, visto che erano innocenti. E pensare che, per salvarli, sarebbe bastato che il responsabile si fosse presentato. I loro nomi sono Giovanni Girardini e Bruno Tonello. Il “Tigre”, che meglio sarebbe stato chiamare “Coniglio”, aveva assistito alla loro impiccagione avvolto nell’ombra della propria vigliaccheria.
Questa la situazione a Oderzo. Questi gli schieramenti. La vita si fa giorno dopo giorno più insostenibile. Bisogna fare qualcosa per evitare il protrarsi delle violenze. La guerra è ormai persa, lo sanno tutti, anche i fascisti repubblicani di Oderzo. È per questo che il 27 aprile mons. Domenico Visentin, l’ing. Plinio Fabrizio, sindaco di Oderzo, e il membro del CLN dott. Sergio Martin si incontrano con i rappresentanti dei reparti militari repubblicani, il commissario straordinario Giuseppe Pizzirani e il comandante regionale Ottavio Peane, per concordare una resa dei fascisti che eviti ulteriori spargimenti di sangue.
L’accordo prevede che, a fronte della consegna delle armi, i fascisti abbiano un salvacondotto e siano considerati prigionieri di guerra, con tutte le garanzie del caso.
Il 28 aprile concludono le trattative il tenente colonnello Giovanni Baccarani e il maggiore Amerigo Ansaloni.
La prima parte dell’accordo avviene senza problemi: le armi vengono consegnate. La seconda parte dell’accordo, invece, subisce drastiche modifiche in itinere, o, meglio, un annullamento di fatto dopo i primi salvacondotti firmati. Più di trecento, in realtà, scritti frettolosamente, in modo da limitare il numero delle vittime nella strage che già si subodorava ad opera dei “Cacciatori della Pianura”. Non è il CLN a rimangiarsi la parola, infatti; non è il CLN ad agire in modo disonorevole, bensì questi ultimi.
L’ing. Fabrizio mostra ai partigiani il patto firmato e comunica l’avvenuta consegna delle armi: quei fascisti sono disarmati, spiega loro, e hanno firmato la resa in cambio di un salvacondotto; non si può non onorare un simile accordo. Ma certi partigiani dell’onore sanno davvero poco.
Il 30 aprile, dal carcere di Oderzo ove si trovano per volontaria sottomissione in attesa di un lasciapassare, “Bozambo”, a capo di altri partigiani, preleva 7 prigionieri. Poco meno di un’ora dopo ne vengono prelevati altri sei. Dopo un sommario processo popolare in cui accusa, giudice e boia sono i partigiani stessi, i militi vengono condannati a morte. L’esecuzione avviene poco dopo sulle rive del torrente Monticano, che si empie di sangue innocente.
I membri del CLN, così come gli altri firmatari antifascisti del patto con i repubblicani, vanno su tutte le furie e si confrontano duramente con i partigiani, ma non ottengono nulla se non offese e sguardi di riprovazione. Secondo i partigiani hanno fatto male a promettere ciò che non doveva essere promesso: i fascisti non hanno diritto ad un salvacondotto, non hanno diritto di vivere.
La situazione è tesa e nessuno vuole uno scontro diretto. I partigiani, dunque, per calmare il CLN, assicurano che nessun altro prigioniero sarebbe stato ucciso. Una delle loro tante menzogne, ovviamente.
Il giorno seguente, 1° maggio, il partigiano Silvio Lorenzon, a capo di una ventina di compagni, al par suo indegne persone, fanno irruzione nel carcere e prelevano ventitré prigionieri. Al custode dicono che sarebbero stati trasferiti a Treviso, ma la sera stessa, insieme ad altri ottanta militi prelevati dal luogo di detenzione arrangiato nel collegio Brandolin, vengono portati a Priula, sul fiume Piave. Hanno i polsi legati dietro la schiena con il fil di ferro, spesso sono legati a coppie, e, nel tragitto, viene loro inflitta loro ogni sorta di sevizia, tra cui pestaggi e espressioni di dileggio come gli sputi in faccia.
Ci vuole davvero tanto coraggio a picchiare uomini legati. Se solo avessero avuto le mani libere ….! Probabilmente, come sottolineato più volte dall’ex repubblicano Giorgio Albertazzi, i militi avrebbero visto i partigiani di schiena, mentre scappavano.
Nascostamente i fascisti cercano di lasciare al prete di quella casa di reclusione qualche piccolo oggetto da consegnare alle famiglie. Sanno cosa li aspetta.
“Bozambo” non vede l’ora di scaricare su di loro i colpi del mitra che, ubriaco fradicio, aveva provato nel pomeriggio, sparando persino sulla statua della Madonna, come testimonierà Romualdo Baldissera in sede processuale.
Giunti nel luogo prescelto, vengono fatti scendere. Le sevizie proseguono per quasi tre ore, come riferisce la testimone Giulia Pastrolin, che abita poco distante e che, di nascosto, osserva l’eccidio. Ad un ufficiale fanno ingoiare i gradi prima di sparargli: il metallo gli taglia l’esofago. Prima di ucciderli, poi, li spogliano di tutti gli averi, persino delle scarpe. Manifestano particolare giubilo quando tagliano il dito di un soldato per rubargli la fede nuziale. Seguono raffiche di colpi che li falciano. I polsi ancora legati, i segni delle sevizie sul volto e sul corpo. Molti di loro, colpiti ma ancora vivi, vengono lasciati a morire sul greto del fiume. Il Piave. Il fiume che aveva visto i soldati italiani combattere con coraggio e onore per la Patria durante la Prima Guerra Mondiale. Quell’azione, invece, è un’offesa non solo ai militi caduti, ma all’Italia stessa. È il freddo e codardo assassinio di soldati che si erano arresi e avevano consegnato le armi.
La notizia colpisce duramente il Comitato che aveva stretto l’accordo.
Don Nespolo, giunto al CNL, pronuncia le seguenti parole:

«Sedetti al posto dei giudicanti e, indignato, ripresi fortemente “Jim”, “Tigre”, “Biondo”, “Bozambo” ed altri sul loro perverso operato, dicendo loro che in 24 ore avevano fatto peggio degli altri in venticinque anni»

Visentin e Fabrizio si rivolgono alle autorità per fermare quegli assassini. Per qualche giorno torna la pace. Ma è difficile fermare delle belve assetate di sangue.
Il 15 maggio, dunque, tornano ad uccidere dodici militi fascisti imprigionati nel collegio Brandolin e non solo lo fanno con l’usuale crudeltà, ma per i più abietti motivi: il nuovo eccidio, infatti, viene perpetrato per “allietare” le nozze del partigiano Venezian, il “Biondo”, con la partigiana Vittorina Arioli, detta “Anita”, matrimonio che avrebbe avuto luogo il giorno seguente.

«Ti auguriamo che tu abbia ad avere dodici figli e perché questo nostro augurio abbia ad essere consacrato domandiamo che siano uccisi, vittime di propiziazione, dodici fascisti»

come afferma, in sede processuale, il testimone don Giacobbe Nespolo.
Ai dodici prigionieri si aggiunge un ragazzo minorenne, Federico Montenegro. Non il primo né l’ultimo. Le stragi di Oderzo sono la punta di un iceberg di violenza diffusa e quotidiana. Le uccisioni di quei mesi sono molte di più e tutte per mano di quei partigiani, tutte macchiate dal loro sadismo.
Wanda Mignani, ad esempio, nel corso del processo racconterà la sua disperazione nel cercare il fratellino di 14 anni e l’orrore dell’incontro con il “Biondo”, il quale le disse che era morto, aggiungendo: «Mi dispiace di non averli fatti fuori tutti, dal più piccolo al più vecchio». Stesso dicasi per un’altra testimone processuale, Angela Vianini, alla disperata ricerca del figlio non ancora diciottenne Angelo Bonzi. A lei sarà “Jim” a dare notizia della sua morte: «Sono ben felice di averlo fatto e mi dispiace di non avere ucciso anche gli altri».
Si comportano al pari dei peggiori aguzzini tedeschi nei lager, quegli aguzzini che i “coraggiosi” e “onorevoli” partigiani dicono di voler combattere, di voler cancellare dalla memoria collettiva.
Il 16 maggio 1953 gli assassini responsabili delle stragi di Oderzo vengono giudicati e condannati.  Il corso del processo non è dei più semplici. Deve persino essere spostata la sede per la celebrazione delle udienze a causa delle costanti intimidazioni e dei tentativi di corruzione dei testimoni.
Nella sentenza si legge:

«È evidente che gli omicidi di cui è processo non furono commessi in lotta contro il fascismo. La lotta presuppone la presenza attiva ed operante di almeno due avversari. Quando ne manca uno, l’altro o lotta contro le ombre o abbatte chi non è più in efficienza per combattere, compiendo un atto di viltà non necessario per il fine che si propone, Nella specie, trattandosi di belligeranti, per meglio precisare la posizione giuridica degli imputati, devesi osservare che era intervenuto, fra le legittime autorità del tempo (CLN e il comando delle truppe della RSI) un regolare patto di resa, che le truppe avevano consegnato le armi e si trovavano quindi nello stato giuridico di prigionieri di guerra.
L’omicidio di essi, assicurati alla giustizia per gli eventuali accertamenti sulla loro condotta durante la guerra, e non più in grado di offendere, costituisce una patente violazione del diritto delle genti, oltre che un atto di barbarie, che nessun decreto di amnistia possono perdonare o far obliare».

La sentenza si riferisce all’amnistia Togliatti, che, tuttavia, viene puntualmente applicata in appello, sicché i “coraggiosi” ed “eroici” partigiani, gli artefici di un eccidio fondato sulla menzogna e sul disonore per non aver rispettato un patto di resa, gli assassini spietati che hanno ucciso tredici persone per festeggiare un matrimonio, le bestie che hanno seviziato e ucciso più di cento uomini inermi, i mostri che si sono accaniti su chiunque, persino sui civili e sui ragazzi, avrebbero compiuto, così facendo, meri atti «in lotta contro il fascismo», come recita la norma che prevede l’amnistia.
Usciti presto dal carcere, vengono orgogliosamente ricevuti in via delle Botteghe Oscure da Togliatti, Longo, Amendola, Pajetta e Terracini, con tanto di prima pagina sull’Unità. Il comunismo, anche quello mascherato da socialismo, è sempre orgoglioso di chi compie le più turpi azioni, gli omicidi più efferati, gli assassinii più turpi, ottusamente obbedendo alle direttive di partito. E la cosa che non cessa di sorprendere è la tenacia con cui, ancora oggi, si continua a dipingere con i colori dell’eroismo e della democrazia il più bieco assolutismo   - o con me, o muori -,  la crudeltà   - o con me, o muori -,  guardando solo all’assolutismo e alla crudeltà altrui, spesso decisamente inferiori. Ancora oggi, sì, in questo presente fatto di storia falsata e di affermazioni allarmanti che non vengono colte per quello che sono, come le parole dell’ex presidente della Repubblica sul rispetto per la fede politica altrui a patto che non sia quella da lui considerata nemica.
Ancora oggi, sì, in questo presente costruito con i mattoni comunisti del rifiuto, dell’ostracismo, del bavaglio, della violenza fisica e verbale, dell’oppressione ideologica in democrazia. A metà degli anni Sessanta i sopravvissuti apposero un cippo commemorativo a Tron di Ponte della Priula, ma il giorno dopo fu imbrattato di vernice rossa   - o con me, o muori -   e continua ad esserlo sistematicamente, come vediamo in questa foto scattata nel 2016   - o con me, o muori -.
Inoltre, si è dovuto aspramente lottare fino a 40 anni dopo la fine della guerra per vedere i nomi dei fascisti tra i caduti di Oderzo. Eppure, le nuove generazioni di quel che accadde a Oderzo non sanno nulla.
 
© di Raffaella Bonsignori
[Tutela certificata – Autore S.I.A.E – 14.05.2024]
 
Foto reperita nel web in pubblico dominio
 
Per saperne di più:
Camillo Carpené, Ombre e luci, Tipse, Vittorio Veneto, 1969
Giorgio Erminio Fantelli, La resistenza dei cattolici nel padovano, Tip. Bolzonella, Padova, 1965
Giuseppe Gaddi, I comunisti nella Resistenza veneta¸ Vangelista, Milano, 1977
Giorgio Pisanò, Storia della Guerra Civile in Italia, vol. 9, Il Giornale, 1997
Antonio Serena, Oderzo 1945. Storia di una strage, Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1984
Franco C. Turco, Il nonno racconta. Quel lontano aprile del 1945 ..., Istituto Superiore Eretum, Monterotondo, 1985


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