Quella notte a Fregene L'assassinio di Ettore Muti
Pubblicato da Raffaella Bonsignori in Storia · Giovedì 24 Ago 2023
24 agosto 1943. Esattamente ottant’anni fa.
Barolat è un brigadiere dei carabinieri di stanza a Fregene. La notte è già scesa a coprire il mare quando viene svegliato dal piantone: tre uomini in borghese chiedono imperiosamente di lui. Sono prima passati dalla stazione dei carabinieri di Maccarese e il comandante, maresciallo Paolo Murittu, affidandoli alla guida di due dei suoi, Antonio Contiero e Salvatore Frau, li ha mandati da lui perché ciò che chiedono è affare di Fregene.
Sono tre uomini di un commando speciale con a capo il tenente dei carabinieri Enzo Taddei; provengono dal Ministero dell’Interno e rispondono direttamente al maresciallo Badoglio. Sono armati fino ai denti. A quanto può vedere Barolat viaggiano su due 1100 nere targate Regio Esercito e un autocarro. In realtà hanno al seguito anche un’ambulanza, la stessa che un mese prima, caduto il fascismo, era servita per trasferire il Duce da Villa Savoia alla caserma di via Gallonio, ma l’hanno lasciata a Maccarese. Enzo Taddei si qualifica. È affiancato dal maresciallo Ricci e da un terzo uomo, di cui non dice nulla. Un tipo strano: non proferisce parola, tiene lo sguardo basso e indossa una sorta di tuta kaki.
Hanno bisogno di raggiungere l’abitazione del tenente colonnello Ettore Muti in quel di Fregene, località che, allora, constava solo di aree boscose, qualche villa e vialetti silenziosi e bui. Hanno bisogno di una guida per trovarla.
Ettore Muti è l’ex Segretario del P.N.F. ed è un eroe di guerra con un corredo incredibile di decorazioni, tra le quali una medaglia d'oro al Valor Militare, dieci d'argento, quattro di bronzo, cinque croci al Merito di Guerra, la croce di Cavaliere dell'Ordine Coloniale della Stella d'Italia e di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia per «aver scritto col sangue la più bella pagina della nostra storia eroica».
Aveva iniziato prestissimo a distinguersi sul campo.
Si era nel pieno della Grande Guerra quando, a 14 anni, era scappato di casa e aveva rubato una divisa militare per andare a combattere. Era stato ripescato qualche giorno dopo dai carabinieri e portato a casa; a 15 anni, però, era nuovamente fuggito dalle mura domestiche e, avendo mostrato un temperamento intrepido, era stato arruolato nei Battaglioni d'Assalto. Prima che i superiori si accorgessero che non aveva l'età per la guerra, aveva partecipato a diverse battaglie, tra cui quella di Bainsizza. Prima di rispedirlo a casa, Cadorna lo aveva presentato come esempio alla truppa schierata:
«Questo è Ettore Muti. È scappato da casa per fare la guerra contro gli austriaci. Sentirete parlare di lui».
E fu così, infatti. Due anni dopo, diciassettenne, era già un uscocco dello Stato Libero di Fiume e D'Annunzio, che l’aveva soprannominato “piccolo filibustiere” e “Gim dagli occhi verdi”, di lui ha lasciato un ritratto poetico molto calzante in un biglietto che gli consegnò:
«Voi siete l'espressione del valore sovrumano, un impeto senza peso, un'offerta senza misura, un pugno d'incenso su la brage, l'aroma di un'anima pura».
Ma torniamo alla notte del 24 agosto di ottant’anni fa.
Barolat è restio ad eseguire quegli ordini, benché non possa rifiutarsi di farlo: Sua Eccellenza Muti non ha mai dato problemi.
Sono circa le due del mattino quando giungono nei pressi del villino bianco di Muti. Sono tanti ma, di fronte ai grandi pini che circondano la casa, sembrano solo piccole, affannate formichine in odore di avanzi.
Taddei dà ordine di circondare la villa: pronti a sparare qualora una finestra si apra o una foglia di troppo si muova. Barolat viene costretto a bussare.
Il primo a cedere alla veglia è l’attendente di Muti, tal Giovanni Marracco detto “Masaniello”. Quando sente la voce amica di Barolat apre, ma tre uomini lo spingono all’interno irrompendo in casa ed obbligandolo a chiamare Muti. Non ce n’è bisogno, ovviamente. Quel trambusto è giunto anche alle sue orecchie e lui non è certo tipo da scappare. Si presenta al cospetto di Taddei, dunque. Chiede cosa stia accadendo. Non c’è paura, nella sua voce. Gli viene esibito l’ordine di arresto. Il suo volto non tradisce emozioni. Si reca in camera per vestirsi. Taddei gli si fa dietro. Muti gli chiede fermamente di restare fuori, perché nella sua stanza c’è anche una signora, ma Taddei non sente ragione: è come un piccolo cane rabbioso, di quelli che arrivano solo al polpaccio, ma non mollano la presa.
La signora in questione è una bellissima soubrette di una certa fama. In casa, in realtà, ci sono anche altre persone, che compaiono attonite sulla soglia delle loro stanze.
Muti si lava, si rinfresca con l’acqua di colonia e indossa la sua divisa. Taddei gli consiglia abiti civili, anche perché - sottolinea - le sue medaglie non gli serviranno. Muti lo gela con il suo sguardo verde di bosco, un bosco improvvisamente attraversato dalla tempesta: che stesse ben attento a come rivolgersi ad un suo superiore! Il fatto che, infine, abbia indossato la sua divisa ci dà la misura del silenzio che deve essersi impadronito di Taddei.
Nel congedarsi, Muti lascia un po’ di soldi alla sua fida cameriera Concettina Verità, che tratta come una di famiglia, e le chiede, a giorno fatto, di telefonare all’amico Col. Aliprandi, Capo Gabinetto al Ministero della Marina, per raccontargli l’accaduto.
Escono di casa e si incamminano verso la pineta. Da questo momento il racconto più preciso che abbiamo è quello verbalizzato nel giugno del 1944 da Antonio Contiero, uno dei due carabinieri di Maccarese che avevano ricevuto l’ordine di accompagnare quel convoglio infame. La sua testimonianza arriva solo nel 1944 perché, nell’immediatezza dei fatti, il suo comandante gli aveva imposto il silenzio.
Il Contiero racconta che gli uomini erano così distribuiti: in testa un gruppo con Ettore Muti al centro, il maresciallo Ricci alla sua destra e il suo collega di Maccarese, Salvatore Frau, a sinistra. Dietro Muti il misterioso uomo con la tuta kaki. Staccato un secondo gruppo con al centro Taddei, alla sua destra Barolat e a sinistra Contiero stesso, seguiti da altri uomini.
Ad un certo punto Taddei emette un fischio, cui risponde qualcuno dal gruppo di testa con un altro fischio e pochi istanti dopo parte la prima raffica di mitra. Si gettano tutti a terra, anche perché Taddei aveva premesso che sarebbero stati attaccati. Tu guarda un po’ che coincidenza: alle volte, le facoltà precognitive che si affacciano improvvise …! Contiero vede raffiche inspiegabilmente sparate in ogni direzione. Quando cessa il fuoco Taddei chiede al gruppo di testa:
«Che cosa c’è?»
La risposta è agghiacciante:
«Finestre chiuse. È andato a casa»
Ed è di lì a pochi passi che trovano il corpo di Ettore Muti riverso al suolo. L’uomo con la tuta kaki gli si avvicina per sferrargli un calcio, proferendo ingiurie. Ora che è morto può farlo. È così che agiscono i vigliacchi. Ha dovuto sparargli alla nuca, prima. E che l’abbia fatto emerge chiaramente dalle parole di Contiero:
«La mattina dopo ho visto il carabiniere Frau, che, come ho detto, era alla sinistra di Ettore Muti quando avvenne, posso dire, l’assassinio. Frau era alquanto sconvolto o per lo meno alquanto nervoso. Gli domandai che cosa avesse ed egli mi confessò che non aveva dormito tutta la notte; quindi, ricordando l’accaduto, mi raccontò che appena il tenente aveva fischiato, colui che aveva risposto con un fischio era stato il maresciallo della squadra speciale [Ricci]. Dopo pochi istanti lo stesso maresciallo aveva toccato col gomito il famoso individuo con la tuta kaki, il quale, subito, aveva alzato la canna del mitra sparando una raffica alla nuca di Ettore Muti. Appena dopo, i due si erano messi a sparare in tutte le direzioni per simulare un attacco».
Ovviamente, la versione ufficiale dei fatti narra ben altra storia.
Il primo comunicato è un tentativo maldestro di infangare il nome di Muti:
«A seguito di accertamento di gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale, nel quale risultava implicato l’ex segretario del partito fascista Ettore Muti, l’Arma dei Carabinieri procedeva nella notte dal 23 al 24 corrente al fermo del Muti a Fregene. Mentre lo si conduceva alla caserma sono stati sparati dal bosco colpi di fucile contro la scorta. Nel momentaneo scompiglio egli si dava alla fuga, ma inseguito e ferito da colpi di moschetto tirati dai carabinieri decedeva».
È una versione che non convince nessuno e rischia di sollevare più reazioni che acquiescenze. Il nuovo governo ha bisogno di portare la popolazione, per gran parte ancora fedele al fascismo, ad allontanarsi da esso, anche screditando i suoi vertici. La menzogna esagerata, tuttavia, suscita l’effetto contrario di solito. Se ne rende conto Badoglio stesso, il quale, nei giorni seguenti, provvede a rettificare il comunicato, escludendo il fantasioso illecito commesso nella gestione di un non ben precisato ente per parlare di un’uccisione dovuta ad «elementi sconosciuti» che avevano aperto il fuoco mentre «l’eroica medaglia d’oro» veniva tratto in arresto per il fondato sospetto che stesse tramando contro il governo Badoglio. Come abbiamo letto nella testimonianza di Contiero, gli “elementi sconosciuti” non sono mai esistiti. Decisamente più credibile, però, la motivazione che l’ha condotto a morte. Da un mese era caduto il fascismo e Mussolini era prigioniero. Era più che probabile che Ettore Muti avesse in progetto di fare qualcosa, con o senza i tedeschi.
A conferma di questa versione dei fatti, dopo l’armistizio esce fuori anche un biglietto a firma Badoglio diretto al capo della polizia Carmine Senise; è datato 20 agosto 1943, quattro giorni prima del brutale assassinio di Muti:
«Muti è sempre una minaccia. Il successo è solo possibile con un meticoloso lavoro di preparazione. Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso».
Praticamente, dà ordine implicito di ucciderlo. Questo biglietto, però, a guerra finita, seguirà un iter simile ai due biglietti a firma De Gasperi che Giovannino Guareschi pubblicò nel 1954, finendo per questo in galera: verrà, infatti, dichiarato falso da Badoglio, cosa che comporterà una condanna per diffamazione nei confronti di chi aveva osato parlarne. Peccato, però, che nel 1946 l’ex capo della polizia Senise scriverà le sue memorie e, a proposito del caso Muti, dirà:
«Ricordo pure che pochi giorni prima della morte di Muti, il Maresciallo [Badoglio], a proposito delle voci di complotto riferitegli dal generale Carboni, mi disse di essere stato avvertito che non si doveva avere troppa fiducia di Muti, perché amico dei tedeschi. Può darsi che prima di parlare in tal senso, il Maresciallo abbia scritto quell’appunto senza poi inviarmelo; posso anche ammettere che io l’abbia ricevuto dopo aver parlato con lui e che perciò non gli abbia dato peso».
Non gli ha dato peso perché si erano già spiegati a voce, appare evidente.
Sono passati ottant’anni, ma il ricordo di un assassinio perpetrato in modo tanto vile non sbiadisce. Nei Diari del generale Puntoni viene scritto:
«Si creerà il mito “Muti” e i fascisti avranno il loro Matteotti».
Ma così non è stato. Di Muti sono in pochi a ricordare le gesta eroiche e la fine determinata da un’azione codarda. Qualcuno, basandosi sulla controstoria narrata dai vincitori, di lui riporta solo la partecipazione agli scontri del 1922 e un atteggiamento portato alla violenza della lotta armata, arrivando a minimizzare persino alcune sue azioni di guerra, come se le medaglie le avesse coniate da solo. È la stessa accreditata controstoria che, invece di scovare negli archivi e nelle emeroteche tutti i comunicati ufficiali seguenti la sua morte, si ferma al primo, in realtà smentito, perché le “irregolarità nella gestione di un ente” fanno sicuramente più comodo.
In un film degli anni Ottanta, Frantic, il personaggio interpretato da Harrison Ford, nel rispondere alle accuse di poca serietà avanzate nei confronti di sua moglie, esclama: «Lei sta parlando di mia moglie, ma forse sta pensando alla sua!». Una frase che mi viene spesso in mente, quando leggo pagine di “storia” in cui figurano fantasiose accuse.
Quest’anno ricorre il centenario dell’Aeronautica, l’Arma che Muti ha amato così tanto che, pur di entrarvi, accettò di retrocedere ad un grado inferiore al proprio, ossia quello di tenente, ricominciando da lì la sua carriera militare. Durante la Seconda Guerra mondiale comandò il XLI Gruppo SM-79 del 12º Stormo; uno Stormo che fece parlare di sé per aver compiuto più di un’impresa vittoriosa sui mezzi e i rifornimenti nemici. Ebbene, dopo la cancellazione del nome di Italo Balbo dalla flotta aerea di Stato, nonostante l’importantissimo anniversario che l’Aeronautica festeggia quest’anno, anche su Ettore Muti, purtroppo, si posa un incomprensibile, pesantissimo manto di silenzio e il silenzio uccide anche i morti. È per questo che ne ho parlato. Certi uomini non possono e non devono essere dimenticati.
© di Raffaella Bonsignori
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Per approfondire
Domizia Carafòli – Gustavo Bocchini Padiglione, Ettore Muti. Il gerarca scomodo, Mursia, Milano, 2002
Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, Einaudi, Torino, 1990
Fernando Gori – Michele Campana, Ettore Muti, Editrice Italiana, Roma, 1964
Arrigo Petacco, Ammazzate quel fascista! Vita intrepida di Ettore Muti, Mondadori, Milano, 2002
Giorgio Pisanò, Storia della Guerra Civile in Italia, allegato a Il Giornale, vol. 1, 1997
Giulio Schiari, Ettore Muti, Edizioni Erre, Venezia-Milano, 1945
Carmine Senise, Quando ero a capo della polizia, Ruffolo, Roma, 1946
Fabrizio Vincenti, Fino all’inferno e ritorno, Ed. Eclettica, Massa, 2023