Aggressività istintuale e fascino del crimine: le spinte motivazionali generate dalla divulgazione dei reati omicidiari
Università
«Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti
di rappresentarlo, così, come dentro ci urge la passione»
[L. Pirandello]
Si cela una curiosità primordiale dietro l’attenzione prestata ai meccanismi delittuosi: in un certo senso, di fronte all’idea di penetrare la cortina del Male, studiando o anche soltanto leggendo i casi più eclatanti della criminalità, soprattutto di quella omicidiaria, si subisce un fascino perverso, siano essi reali o frutto di fantasia artistica. Non è facile da accettare, ma si tratta di un meccanismo polarizzante che si scatena in ognuno di noi, in realtà, tutti i giorni, prigionieri come siamo di una fantasia le cui tinte più fosche evocano l’immagine di una morbosità ossessiva da “crime stalker”, non dissimile, in fondo, a quella dei turisti che, negli anni ’50, in un quartiere di Londra, affollavano, per due scellini e sei pence a visita, la casa di un noto assassino necrofilo (Furneaux, 1967).
Del resto non è un caso che, dalla tragedia greca alla letteratura patibolare, da Shakespeare a Dante, da Dostoevskij a Shiller, a Poe, Zola, Stendhal, Balzac (si vedano le pregevoli opere di Alimena, 1899; Chindamo, 1939; Ferri, 1896), o ancora a scrittori moderni come Harris e King [1] e persino agli autori dei fumetti più recenti come il Berardi, ideatore della criminologa Julia (Angelini, Verde, 2002), il delitto sia al centro dell’attenzione, essendo, in certo qual modo, un escamotage letterario in grado, a volte, di suscitare nel lettore un interesse più grande di qualunque altra vicenda. Ponendo la questione in questi termini, dunque, sembra quasi naturale affermare che il delitto paga; e, tutto sommato, è così, laddove non sia commesso, naturalmente, ma solo descritto. Accade, infatti, anche nel caso in cui la vicenda criminosa sia reale: si pensi alla cronaca nera [2], che, statisticamente, è l’espressione più nota del giornalismo, quella più seguita in assoluto, a prescindere dalla razza, dal sesso, dall’età, dall’estrazione culturale dei lettori e dall’epoca in cui vivono (Hartman, 1977) [3]. Esiste, però, un rischio non sempre calcolato nella divulgazione del crimine, quello di suscitare una reazione violenta; un interesse morboso che, per diverse ragioni, si spinge al di là del mero stimolo intellettuale, o del capriccio artistico, per loro stessa natura, invece, funzionali, come vedremo, al depotenziamento del motore aggressivo.
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Note:
[1] Stephen King, noto al grande pubblico con l’appellativo semplicistico di “maestro dell’horror”, è, in realtà, uno scrittore particolarmente attento ai meccanismi psicologici legati al crimine: anche nei romanzi che, a causa del suo lungo indugiare su descrizioni macabre, più di altri possono definirsi “splatter”, è, infatti, possibile rilevare un sottofondo di sottile comprensione dell’evolversi dei sentimenti e delle reazioni ad essi conseguenti rispetto ad un’azione criminosa. In tal modo un romanzo di King spesso diviene il racconto di se stesso: alla descrizione di un meccanismo reattivo alla violenza, di cui è protagonista un personaggio di fantasia, se ne potrebbe giustapporre uno concreto di analoga intensità e somigliante natura, quello del lettore.
[2] In senso lato inteso può essere considerata tale anche la divulgazione di scritti, od altre comunicazioni di vario genere, direttamente attribuibili all’autore del crimine, la cui discutibile autenticità (Magnarapa - Pappa, 1996) non esclude che sorga per essi un interessamento particolare.
[3] L’Autore citato sottolinea come, anche in epoca vittoriana, esistesse un preponderante interesse giornalistico per i casi giudiziari.
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Un noto psichiatra americano, Robert I. Simon (1997), ha scritto un bellissimo saggio in proposito dal titolo intrigante, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno, in cui, con estrema chiarezza, illustra i comportamenti devianti e li mette in relazione con la cosiddetta “normalità”, dietro cui viene quotidianamente celata l’aggressività impulsiva congenita (Hartmann - Kris, 1949; Beres, 1952) [4]; aggressività che, talvolta, quando non induce alla devianza criminale, si trasforma in una marcata tendenza auto-repressiva: l’uomo “buono” si eleva, così, sui criminali con fortissimi atteggiamenti censori, che, specchiandosi nel proprio contrario, giungono fino alla legittimazione della tortura e della pena di morte.
«Il nucleo sociopsichico del diritto sta in un fenomeno di pressione sociale. Sul piano degli impulsi, trasgressore ed osservanti si confondono: dei giudici condannano l’assassino, un boia l’ammazza, il pubblico presta festose corvée di patibolo; messinscene modellate da una dura logica del contrappasso evocano drammaticamente l’equivalenza di delitto ed atto repressivo. […] La pena eseguita dal gruppo è un rimedio omeopatico al desiderio della cosa vietata: sfogando lecitamente degli impulsi su cui pesa un tabù, i lapidanti imparano a detestare il delitto incarnato dal paziente» (Cordero, 1978, 948).
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Nota:
[4] La tendenza alla devianza quale disposizione d’animo è presa in considerazione persino da quella parte della migliore letteratura che, vuoi per convinzioni religiose, vuoi per ragioni scientifiche, ha sostenuto fermamente che non si possa parlare, in termini assoluti, di «delinquenza potenziale», dal momento che il «sostrato endotimico» è in stretta connessione con quello organico e, dunque, non può essere estrapolato da un più ampio contesto biologico (Gemelli, 1948).
Nella storia giuridica, pertanto, l’esistenza di un’aggressività innata, tradotta in comportamenti violenti che evocano l’idea di un potere assoluto di origine divina - cui si riconduce lo ius vitae ac necis -, paradossalmente è documentata sia dai casi di delinquenza, sia da quelli di “rettitudine”, ossia dagli effetti devastanti dell’applicazione di alcune leggi: quelle che prevedono aspri meccanismi punitivi (Foucault, 1976), ma anche quelle che, in generale, legittimano, più o meno esplicitamente, coartazioni fisiche o psicologiche (Szasz, 1972) [5] al fine di affermare il potere, appartenga esso allo Stato-istituzione, o al singolo sovrano: «Noi li persuaderemo che, soltanto quando avranno consegnato a noi la loro libertà, diventeranno liberi. […] Proveranno meraviglia e timore e perfino orgoglio di saperci tanto forti e tanto saggi da esser capaci di pacificare il gregge di milioni e milioni di turbolenti» affermava il Grande Inquisitore di Dostoevskij (1984, vol. I, 251).
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In tal senso inteso, il concetto dell’istinto atavico di prevaricazione e di aggressività, su cui, in questa sede, intendiamo focalizzare l’attenzione, rappresenta una delle costanti del pensiero psicologico e filosofico-religioso: si pensi, ad esempio, all’idea stessa del peccato originale, che, al di là della sua descrizione biblica come colpa ereditata, o della sua poetica trasposizione nello “specchio infranto” della coscienza (Cordero, 1970), rappresenta un germe in nuce, una potenziale “cattiveria” che l’homo religiosus deve espiare vivendo una vita da “buono”, così da comporre in sé il dissidio essenziale enucleabile nel pensiero di Rousseau e in quello di Hobbes.
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Nota:
[5] Particolarmente interessante, inoltre, il contributo alla denuncia della violenza legalizzata che diede Jean-Paul Sartre, sia da un punto di vista squisitamente letterario, trattando di misure carcerarie di matrice politica (1966), sia storico e sociologico (1958).
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Nel 1954 lo scrittore inglese William Gerald Golding (1980) descrisse con esattezza questa gestazione del seme genetico dell’aggressività nel suo capolavoro Il signore delle mosche, sconvolgendo l’Inghilterra puritana, che, dopo aver accettato, non senza difficoltà, il Mr Hyde cui Stevenson (1983) aveva concesso di emergere dall’animo del Dr Jeckyll, voleva continuare a vedere almeno nei bambini la purezza assoluta, non contaminata dalle spore della malvagità dell’età adulta. Per rendere il messaggio intelligibile ai più, prigionieri di una cultura tradizionale, anche Golding caratterizzò fortemente i personaggi, ma lo fece discostandosi in parte dalla tradizionale identificazione di origine greca tra bellezza e bontà (kalokagathia); quella stessa identificazione in grado di rendere irriconoscibile il Satana di Milton agli occhi di Zefone: «Da quando hai rifiutato la bontà la tua gloria si è persa, ed ora tu assomigli solamente al tuo peccato, ed al luogo oscuro ed infame della tua dannazione» (Milton, 1992, 197).
Infatti, a differenza di Milton, di Stevenson o del nostro contemporaneo McGrath (2001), per fare un esempio più vicino [6], egli non creò una maschera fisica della cattiveria, bensì, trattandosi di bambini, trovò una esteriorizzazione estremamente efficace nel lasciare che la cattiveria trasparisse modificando il contegno e, dunque, l’espressione stessa del corpo: al “malvagio”, pertanto, Golding attribuì, sì, un mutamento esteriore pari a quello interiore - che, in qualche modo, giustificasse e segnasse il suo allontanamento dalla normalità -, ma lo descrisse in modo essenzialmente comportamentale. Nel romanzo i “cattivi” assumono progressivamente atteggiamenti tribali, primitivi, selvaggi e sarà proprio questo a distinguerli dal loro compagno Ralph, a mano a mano che lo abbandoneranno per andare verso l’autodistruzione violenta [7].
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Note:
[6] Harry Peake è, in questo senso, un personaggio emblematico della migliore letteratura contemporanea: egli paga il prezzo della propria dissennatezza con una mostruosa trasformazione fisica che lo condurrà verso un cammino di orrore apparentemente irreversibile.
[7] La tendenza a comportamenti primitivi ed il progressivo annullamento della personalità si nota soprattutto in soggetti che si riuniscono in gruppi dai rilievi delinquenziali (Le Bon, 1982).
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Purtroppo, però, non sempre il quadro della situazione viene rappresentato con tanta lucidità. Di fronte a scene particolarmente cruente, in realtà, si è soliti attribuire all’essere umano non già una selvatichezza primitiva, quanto una componente “animalesca”, quale unico simbolo dell’aggressività cieca [8]. Solitamente, infatti, definiamo “efferati” i crimini più atroci, usiamo, cioè, un aggettivo che rivela esplicite affinità semantiche con il termine “fiera”, bestia predatrice; tuttavia non si tratta che di un espediente verbale in grado di attuare una proiezione difensiva contro il male che si annida nell’animo umano [9] e che rientra tra gli istinti distruttivi, atavismi di sopravvivenza e di soddisfazione erotica (Solié, 1997) : l’istinto non è, dunque, una prerogativa del mondo animale estraneo all’uomo [10], bensì un movente interno, una risposta organizzata, congenita ed ereditaria, che presuppone schemi di adattamento progressivo a situazioni ambientali tipiche e, in quanto tale, appartiene a qualunque animale, compreso l’uomo (per un’analisi sociale e psicologica dell’aggressività si vedano Berkowitz, 1962; Buss, 1961; Gold, 1958; Tinbergen, 1968). Pertanto l’agire puramente istintivo può identificarsi al più con una regressione, ma non certo con una disumanizzazione, cosa che, peraltro, trova ulteriore conferma nella fantasiosa ma non infondata tesi dell’australopiteco violento di Ardrey (1961). Il problema, dunque, si sposta sull’eventuale matrice aggressiva.
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Note:
[8] «Il profano, fuorviato dal sensazionalismo della stampa e del cinema, immagina abitualmente il rapporto esistente fra le bestie feroci dell’inferno verde della giungla come una lotta all’ultimo sangue di tutti contro tutti. Ancora non molto tempo fa vi erano in giro film nei quali per esempio si vedeva una tigre del Bengala lottare con un pitone e, subito dopo, quest’ultimo con un coccodrillo. Posso assicurare in tutta coscienza che in condizioni normali cose di questo genere non accadono mai», (Lorenz, 1969, 59).
[9] L’uomo, infatti, più di ogni altro animale, è capace di realizzare comportamenti “criminali” e, forse, proprio per evitare di guardare se stesso definisce “rapace” o, peggio, “killer” l’animale predatore, quando, invece, certi aggettivi possono riferirsi «solo ai misfatti […] dell’uomo contro i suoi simili» (Lorenz, 1967, 154).
[10] Del resto si noti come, non solo l’aggressività, ma anche la pulsione esattamente contraria, intesa sia come mitezza che come altruismo, non possa dirsi esclusivamente umana. Il comportamento etico, ossia l’agire secondo morale, che è da sempre considerata una prerogativa della natura umana è, in realtà, frutto dell’evoluzione e, come tale, appartiene, benché in misura differente, anche ad altri animali (per approfondimenti De Mori, 2001).
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Non si vuole, certo, in questa sede ignorare l’opinione di chi nega che l’istinto possa essere legato in modo puro e diretto al fattore violenza, identificando, piuttosto, la fonte dell’aggressività, di volta in volta, nel rapporto “aggressione-frustrazione” (Dollard, Dobb, 1939) - soprattutto se visto in un’ottica sociologica di stampo durkheimiano (Berkowitz, 1962) -, nella sottocultura della violenza, quale evoluzione delle teorie sociali più rigorose (Wolfgang, 1958), o, ancora, nell’attuazione di comportamenti acquisiti, frutto di esperienze passate o di premialità occasionali - come nel caso dei riconoscimenti di valore per i soldati che abbiano combattuto, e non infrequentemente ucciso, il nemico in guerra (Bandura, 1973) -. Tuttavia riteniamo, al contrario, che l’istinto sia una delle fondamentali spinte motrici nell’attuazione di comportamenti devianti.
Seppure l’aggressività espressa nell’atto ultimo della violenza, ossia nell’uccisione, non può essere sempre spiegata tout court dall’insorgere devastante di una pulsione indomabile [11], poiché l’omicidio è la conseguenza estrema dell’interazione di molteplici fattori e particolarmente complesso appare il suo schema quando si vanno a considerare le componenti biologiche [12], riteniamo di limitare in modo corretto il raggio d’analisi e, dunque, di non peccare di riduzionismo, ponendo che nella teoria degli istinti possano essere individuati gli elementi utili ad argomentare lo stretto collegamento tra il messaggio contenuto nella divulgazione del crimine e la reazione del destinatario di tale messaggio.
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Note:
[11] Il termine pulsione, in questa sede, viene utilizzato come sinonimo di istinto e non già nella sua differenziata accezione freudiana (Trieb) di costituente psichica propulsiva e indeterminata, contrapposta all’istinto puro (Instinkt), che, invece, rientra in uno schema genetico ereditario del singolo individuo (Freud, 1978, a).
[12] «È opinione comune che i fattori biologici agiscano negli esseri umani come fattori predisponenti, che sono cioè considerati necessari ma non sempre sufficienti perché si giunga ad un atto violento di proporzione omicida. Stando così le cose, queste predisposizioni risultano atte a produrre comportamenti violenti, se indotte da eventi ambientali» (Malmquist, 1999, 48. Inoltre, per ulteriori delucidazioni, sempre di stampo criminologico, sui fattori più specificamente attinenti alla neurologia si consultino Elliott, 1988; Lunde, 1975; Mark, Ervin, 1970).
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Muovendoci in quest’ordine d’idee e mutuando gli strumenti di analisi dal pensiero psicanalitico, potremmo rappresentare l’aggressività come un frutto il cui nocciolo sia costituito dall’istinto e il resto consti delle non-istanze o delle istanze malate del Super-Io, così come dell’intervento del cogito cartesiano nella rielaborazione di Freud, ossia dell’Io pensante, filo di congiunzione tra l’universo interiore e quello esterno (Niceforo, 1949). In senso lato inteso, il pensiero, dunque, entra a pieno titolo nel circolo evolutivo deviante, non solo quale “intellettualizzazione” censoria (Freud, 1978, b) [13], ma anche come fantasia scatenante del “diavolo pulsionale” (De Urtubey, 1984), effetto, in molti casi, del bipolarismo attrazione-repulsione originato dall’Unheimlich. Come noto è tale tutto ciò che desta inquietudine in quanto contrario al senso di tranquillità evocato dall’etimologia positiva del termine (Heim, in tedesco, significa casa); in particolare si tratta del riaffiorare di elementi nascosti e segreti che appartengono al mondo interiore, del mostruoso animarsi di un principio maligno strappato alla fantasia come al delirio, di cui sembrano simboli perfetti, secondo lo stesso Freud, la figura di Coppelius e quella dell’automa Olimpia ne L’uomo della sabbia di Hoffmann (1951), entrambi personaggi-chiave dell’inconscio, che, in un crescendo drammatico finalizzato all’epilogo fatale, lascia emergere dalle proprie profondità inafferrabili fantasie e reconditi terrori: «Questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi, ad essa estraniandosi soltanto a causa del processo di rimozione. Il rapporto con la rimozione ci chiarisce ora anche la definizione di Schelling, secondo la quale il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che invece è affiorato» (Freud, 1991 a, 294).
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Nota:
[13] Una particolare attenzione ai meccanismi interni di controllo emerge anche nel pensiero contemporaneo. In tal senso si veda per tutti Caprara (2002, 55), il quale, confrontando il pensiero di Aaron T. Beck (Prisoners of Hate: The Cognitive Basis of Anger, Hostility and Violence, Harper & Collins, New York, 1999) sull’aggressività originata da un Io debole e autovittimizzato, e quello di Roy F. Baumeister (Evil: Inside Human Cruelty and Violence, Freeman, New York, 1997) sull’Io ipertrofico e, dunque, sulla funzione difensiva dell’aggressività rispetto all’alta concezione di sé, non disconosce al comportamento aggressivo un’intima connessione con le esigenze dell’Io, pur evidenziandone la possibile censura intellettuale: «l’idea dell’individuo in balia delle cosiddette ‘pulsioni’ o delle cosiddette ‘circostanze’, contrasta con i gradi di libertà di cui la persona comunque dispone nell’orientare la propria vita in accordo a valori personali ed a norme condivise e nel perseguire le mete che ritiene accessibili».
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Difficile pensare che la riemersione dell’istinto nero, ossia dell’aggressività incontrollata, non determini nell’immaginazione or ora descritta un forte coadiuvante per l’ingresso nella realtà. Del resto null’altro sembrano le ritualità che si riscontrano in alcuni omicidi.
Le componenti morali, reali e razionali dell’individuo, dunque, e l’istinto sono posti a fondamento dell’umano agire, pur diversificandosi nelle loro molteplici espressioni. Arduo, tuttavia, un tentativo classificatorio, soprattutto per quanto concerne l’impulsività.
Freud, semplificando l’ordine che, da Darwin in poi, era stato dato agli istinti, raggruppandoli in lunghe e dettagliate liste (Darwin, 1967; McDougall, 1908), dapprima ne sottolineò la natura egoica e, quindi, ne offrì una visione dicotomica e contrappose Eros a Thanatos, ossia l’istinto di vita, legato al concetto di libido, a quello di morte (Freud, 1976; Id., 1946; Waelder, 1956) - intendibile, in senso stretto, come pulsione d’impossessamento (Bemächtigungstrieb) e, dunque, come meccanismo di ritorno all’inorganico, e, in senso ampio, come forza rivoluzionaria, come “creatività istituzionale” (Deleuze - Guattari, 1975, 167) -, formulando, però, non già l’idea di una netta e insanabile spaccatura, bensì di una perenne fusione e de-fusione delle forze istintuali (Marcuse, 1978) in grado di imprimere, attraverso una sorta di fenomeno esplosivo, una direzione (Richtung) all’esistenza stessa, in cui non trova spazio un criterio assoluto di moralità. In buona sostanza, la risposta deviante impulsiva, seppur consiste nella manifestazione di un atavismo, non preclude un rapporto tra l’Io - trade union dei processi psichici e sede primaria dell’angoscia e dei meccanismi di difesa -, il Super-Io - depositario delle istanze morali - e l’Es - polo pulsionale della personalità, o, come poeticamente definito da Groddeck, «quella strana cosa da cui siamo vissuti» (Groddeck, 1966, 25) e di cui paradossalmente fu data una rappresentazione visiva di grande impatto in un cult-movie americano degli anni Cinquanta, Il Pianeta Proibito, interpretazione fantascientifica de La Tempesta di Shakespeare -. Se, da un lato, infatti, il prevalere degli istinti libidici, della proclività impulsiva dell’Es, che determina un comportamento egocentrico e antisociale, tende a scaturire dall’assenza dell’angoscia dovuta alla mancata riprovazione di un Super-Io non perfettamente sviluppato - a causa, ad esempio, dell’inadeguatezza dei modelli di identificazione familiare (genitori totalmente assenti) o sociale (influenza criminale esterna alla famiglia) -; dall’altro l’agire criminale non necessariamente consegue ad un’assenza di morale, trattandosi, in alcuni casi, di una risposta ad un Super-Io particolarmente rigido, dispotico ed arcaico, conseguenza, spesso, di un modello familiare offerto da genitori troppo protettivi o autoritari (Klein, 1934; Id., 1978), capace di generare un senso di colpa alleviato dal delitto, inteso come forma di autopunizione di matrice edipica (Freud, 1991 b; Id, 1973).
In ogni caso, l’istinto, soprattutto quello di morte, risponde ad un criterio “idraulico”, come lo definisce Fromm (1975), basato su un effetto dirompente pari a quello dell’acqua rilasciata dopo essere stata sottoposta a forte pressione, o, come potremmo scenograficamente rappresentarlo oggi, pari ad uno Tsumani, ad un’onda gigantesca e distruttiva generata da un anomalo movimento tellurico. Tale criterio non si esaurisce, peraltro, con la metapsicologia freudiana, ma sta alla base anche delle successive teorie, forse più vicine al pensiero contemporaneo.
Konrad Lorenz, il padre dell’etologia moderna, ad esempio, pur discostandosi dall’idea dell’aggressività come istinto meramente distruttivo e attribuendole, su presupposti biologici, un’originaria ancillarità rispetto alla conservazione della vita, usa un analogo metodo rappresentativo e l’aggressività -quella difensiva più che quella offensiva- viene descritta come uno stato di eccitazione interiore, più o meno direttamente dipendente dai meccanismi reattivi esterni.
Come accennato poc’anzi, pur volendo porre la teoria degli istinti alla base di una corretta osservazione del comportamento deviante omicidiario, non può essere trascurato il contributo intellettivo rispetto alla pulsione primeva. Partendo dall’evoluzione teorica di Tinbergen, sostenitore di un istintivismo complesso, fondato sull’interazione tra pulsione ed apprendimento (Tinbergen, 1951), è possibile, infatti, giungere ad un ulteriore stato di elaborazione degli istinti, attribuendo all’intelletto un ruolo fondamentale non solo nel dominio e nella repressione degli stessi, ma anche nella loro manifestazione. Nell’uomo alle pulsioni aggressive si unisce, pertanto, un’elaborazione mentale più o meno manifesta, prevalentemente percepibile sotto forma di ragionamento ma anche di fantasia, ossia di capacità immaginifica, che, così come può fornire la misura della crudeltà del mezzo rispetto al fine nell’ambito di un’azione violenta, al pari può reprimere gli impulsi, o universalizzare il messaggio aggressivo, racchiudendolo in una rappresentazione della violenza e non nella violenza stessa; rappresentazione attiva o recettiva, a seconda che si guardi al soggetto che la pone in essere o al destinatario. Il che apre l’eterna quaestio sull’azione comunicativa (Francia - Verde - Birkhoff, 1999) e sull’influenza che tale rappresentazione può avere sui fruitori del messaggio.
Procedendo in questa direzione d’analisi, e pur restando nell’ambito dell’istintivismo, si deve sottolineare che non assumono valore esclusivamente le reazioni originate dalla “esplosione” di un istinto a seguito di uno stimolo esterno diretto, ma anche quelle dovute ad un meccanismo emulativo, ossia ad una ricerca dello stimolo dovuto al risvegliarsi dell’istinto su basi puramente intellettive.
Tuttavia, benché sia sempre opportuno tener conto di una distinzione essenziale tra adulti e minori - dotati, questi ultimi, di un’inferiore capacità critica e, dunque, più esposti al rischio di emulazione (Poklewski - Koziell, 1985; AA.VV., 1996 b) -, non bisogna credere che ogni rappresentazione di un delitto, sia essa frutto di fantasia o meno, possa a sua volta generarne di nuovi, risvegliando gli istinti distruttivi di alcuni soggetti particolarmente predisposti. Anzi a volte è vero il contrario. L’attrazione verso le storie di sangue cela il dominio degli impulsi; entro certi confini l’istinto omicidiario, l’aggressività innata, si nutre di storie aliene da sé al fine di sopportare l’autofrustrazione intellettiva senza produrre l’effetto ultimo del processo “idraulico” descritto da Fromm. Diversa, tuttavia, la misura d’estrinsecazione effettuale a seconda del mezzo comunicativo. Per quanto concerne la pellicola cinematografica, ad esempio, si evidenzi come questa, offrendo una rappresentazione visiva dell’accadimento violento nel suo divenire, generi, a breve e soprattutto a lungo termine, un impatto emotivo ed emulativo molto forte (Gasca, 1968): così accadde con il film Arancia Meccanica, che determinò una recrudescenza di crimini analoghi a quelli rappresentati da Kubrik, o con Profondo Rosso, almeno a giudicare dall’ascolto ossessivo della musica di Goblin da parte di Guido ed Izzo, gli assassini del Circeo. Altre opere, invece, come quelle letterarie, o anche quelle afferenti alle arti visive tradizionali - si pensi alla produzione pittorica o alla scultura - che abbiano come argomento un omicidio, quand’anche si riferiscano a fatti realmente accaduti, offrono di per sé una più intensa oggettivazione riparatrice collettiva, sia per l’artista che per il fruitore.
Prima di focalizzare l’attenzione sui contributi narrativi, oggetto precipuo della presente indagine, prendiamo, a titolo esemplificativo, i dipinti surrealisti di René Magritte, in cui compaiono immagini molto forti, in senso criminalistico del termine, evidentemente influenzate dal suicidio della madre avvenuto nel periodo della sua adolescenza. Ai fini della presente indagine, in particolare, riteniamo emblematico un suo pregevole olio, L’assassino minacciato, del 1927, nel quale, per effetto di una suddivisione teatrale dello spazio, l’osservatore si trova al centro della scena accanto all’ignaro omicida, “circondato” da cinque uomini: tre sullo sfondo e due, attrezzati per la cattura, in primo piano, come un sipario pronto a chiudersi su di lui. Il coinvolgimento emotivo dell’osservatore, generato dalla prospettiva, fa sì che questi si senta minacciato, in tal modo assimilando se stesso alla figura dell’omicida; tuttavia la descrizione pittorica è tale da suscitare una spinta psicologica uguale e contraria che si traduce nell’impossibilità di fondo a condividere la pacatezza dell’assassino, poiché costui palesa una “normalità” fin troppo dolorosa per non esprimere un lato folle e mette in ombra persino l’idea stessa della morte, trasformando il cadavere in un oggetto - come, peraltro, sottolineato dal piano prospettico in cui compare e dal particolare cromatismo che accomuna ogni elemento caratterizzato dall’assenza di vita (il bianco del corpo, della stoffa e della parete; il rosso del sangue e del divano; il biondo dei capelli e del legno) -. Tale distonia empatica in qualche modo prevarica il processo di identificazione e produce un effetto sedativo, un motivo di distacco emozionale, proiettando il fruitore verso l’opposta identificazione con la figura di coloro che sono chiamati a catturare l’assassino, benché in essi si celi un’aggressività, che, seppure orientata secondo giustizia, appare persino maggiore di quella percepibile dalla scena del crimine (si noti, ad esempio, che il numero di uomini e, quindi, di potenziale difensivo-lesivo, è cinque volte quello dell’uomo da catturare). Analogamente è stato osservato come in un racconto poliziesco esistano mediamente due assassini, il primo è il protagonista dell’intreccio narrativo, mero ingranaggio dello stesso; il secondo è il lettore che, immedesimandosi nel detective, diviene a sua volta carnefice (Lavorato, 2000; Zillman, 1996).
A volte, invece, il proliferare di crimini ha indotto a credere che la capacità descrittiva di un artista - in particolare la sua vena scrittoria, volendo, in questa sede, porre l’accento prevalentemente sul binomio giornalismo/narrazione di fantasia - possa favorire l’identificazione con il protagonista malvagio e generare, così, reazioni violente, inoculando nella mente di taluni elaborate fantasie che, altrimenti, non sarebbero mai emerse e, dunque, non avrebbero mai costituito cause scatenanti di comportamenti omicidiari.
Orbene, dal momento che il raggiungimento della condizione edonica nella lettura si fonda essenzialmente su fattori emotivi quali l’interesse, la curiosità, la suspence e, dunque, il coinvolgimento empatico rispetto ai personaggi, e che il concetto di “piacere” non è affatto univoco, ognuno ricavandolo dalle più disparate ed incoerenti esperienze di vita, appare evidente che, laddove questo scaturisca dalla lettura di un libro, sia anche in grado di influenzare più o meno fortemente la sfera emotiva (per approfondimenti si consultino Levorato, 2000; Zillman, 1996). Ricordiamo, ad esempio, benché fuori da un quadro di compiaciuta descrizione di violenza, il c.d. “effetto Werther”, ossia l’incredibile aumento di suicidi che si registrò, nel 1776, a seguito dell’uscita del capolavoro di Goethe (1987). Tuttavia non ci si può esprimere in termini così assolutistici, dal momento che spesso l’ispirazione artistica è in rapporto debitorio con la realtà e non viceversa: proprio dalla cronaca di episodi criminali, infatti, emerge, a volte, lo spunto per la rielaborazione fantastica dell’artista, cosa che, se induce ad assimilare la figura dell’uroboros al rapporto esistente tra fantasia pura e fantasia applicata, non può distrarre l’attenzione dal fatto che l’immaginazione guidata dall’istinto di morte è spesso nettamente più fervida di quella asservita alla razionalità, all’estro artistico.
Si pensi al caso sollevato, nel 1991, da Bret Easton Ellis, un emergente scrittore americano allora ventiseienne, che scatenò lo scandalo pubblico con il libro American Psycho (Ellis, 1991), nel quale un giovane yuppie newyorkese si rivela dotato di una perversa fantasia da spietato serial killer. Il Canada si rifiutò addirittura di metterlo in commercio, poiché il soggetto era considerato pari ad un’arma letale e, per il bene della collettività, sembrava auspicabile che l’autore trascorresse la propria esistenza in cura psichiatrica (Kotnik, 1991). Ma anche negli Stati Uniti non vi furono poche polemiche circa la sua pubblicazione: Richard Snyder della Simon & Schuster dichiarò, ad esempio, che il libro non doveva essere pubblicato poiché avrebbe potuto generare un pericoloso processo di identificazione con il protagonista: «When you really have to sit down and in the privacy of your own mind read a book word by word, it’s a more powerful experience. The violence has greater impact. You become the person you are reading about» (Wilonsky, 2000, 3).
Eppure, come in parte è accaduto, l’estrema violenza descritta nel libro poteva essere facilmente riscontrata in accadimenti reali riportati nelle pagine di cronaca ben prima della sua pubblicazione o, comunque, contemporaneamente ad essa - cosa che, se esclude un’ispirazione indotta dall’accadimento concreto, quanto meno sottolinea un marcato parallelismo tra realtà e fantasia, dando adito a “suggestive coincidenze” (Merzagora Betsos, 1995) [14] -. In breve, l’essenza criminosa dell’opera di Ellis può essere ritrovata negli epiloghi drammatici dell’ordinaria follia di persone “normali”, che non rispondono alle caratteristiche fisiche tracciate dal Lombroso (1876), gli insospettabili della porta accanto, insomma: gente comune che conduce una vita comune, proprio come noi crediamo di fare (rispetto alla casistica e alle caratteristiche criminologiche di un omicida si consultino le pregevoli opere di Burman, 1987; Bourgoin, 1995; Bruno - Marazzi, 2000; Ermentin - Gulotta, 1971; Ferracuti, 1961; Fornari - Birkhoff, 1996; Ponti - Fornari, 1995; Monestier, 1989; Scott, 1998; Wilson, 1972 a; Id., 1961). Ed è questo, in fondo, l’aspetto che suscita maggiore disagio e, al contempo, fatale attrazione, poiché, alla tipica reazione di paura, cui consegue la cecità più assoluta rispetto al problema - come fu il caso della moglie di Arthur Shawcross, lo strangolatore di Rochester, che non ha mai sospettato nulla, e che, come tutte le donne deboli e insicure, capaci di arrestare la propria perspicacia persino di fronte ad un semplice tradimento, non chiese mai spiegazioni al marito (Bourgoin, 1995) -, si affianca un ostracismo vedente. In altre parole, individuare il “mostro” negli altri appaga la curiosità del mostro che è in noi, evitando, però, di lasciarlo emergere dal nostro specchio e relegandolo, in modo rassicurante, nella pazzia o nella diversità [15], quando non nell’astratta negatività cui il suo etimo riconduce (Fortunati, 1995). In tal senso l’abisso oscuro dell’animo umano si illumina di un’illusione razionale, e rasserenante appare la convinzione che il mostro abbia compiuto «queste atrocità perché è folle, e che tale follia lo rende qualitativamente diverso da noi esseri razionali, che pertanto noi non saremo esposti al rischio di commettere tali atrocità […], che il ‘mostro’ è tale, che è alieno da noi, che noi non siamo mostri, che il male non è una potenzialità in agguato nel nostro come nell’altrui animo» (Merzagora Betsos, 1995, 291).
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Note:
[14] L’efficace espressione è usata dall’A. riguardo al caso di parricidio commesso a Verona da Pietro Maso nel 1991, coevo, nella sua realizzazione - non nell’ideazione, però, avvenuta l’anno precedente - all’uscita del romanzo di Ellis. Leggendo, infatti, il resoconto dei colloqui psichiatrici, identica sembra l’anaffettività e la tendenza narcisistica ed ossessiva dell’omicida, persino nel dare importanza e nel descrivere gli strumenti del proprio apparire (abiti firmati, profumi, ecc.), come riportato da Andreoli (2001, 39): «gran parte del colloquio l’ho trascorso ascoltando Pietro Maso parlare dei profumi che predilige, delle strategie con cui li usava in rapporto alle diverse occasioni e nelle varie ore della giornata. E’ stata per me una vera e propria lezione di cosmetica. Ha ammesso di conoscerne trenta o quaranta griffe diverse. […] Il colloquio è proseguito sui capi di abbigliamento dalle mutande (termine démodé che sta per boxer o slip) alle cravatte od ai papillon. E’ stata l’occasione per percepire in modo ancora più eclatante quanto contasse per lui la cura del suo aspetto, il suo modo di apparire in mezzo agli altri».
[15] Tale atteggiamento mentale, peraltro, si sposta dal piano puramente psicologico a quello strettamente giuridico, laddove generi una certa tendenza a concedere la seminfermità o l’infermità mentale di fronte a particolari delitti, riducendo le ipotesi di imputabilità, in linea con un sistema processuale maggiormente garantistico come quello di stampo accusatorio. E’ chiaro, infatti, che alla tradizionale macchina inquisitoria fosse estranea l’idea che la follia, soprattutto se parziale, potesse indebolire od escludere il concetto di imputabilità. Si pensi a quanto accadde nella Francia della prima metà dell’ottocento, ove illustri esponenti della classe medica sollevarono una forte polemica contro la tendenza a disapplicare l’art. 64 del Codice penale napoleonico che prevedeva non vi fosse alcun crimine o delitto nel caso in cui fosse accertato uno stato di pazzia, ovvero l’imputato avesse agito in preda ad una vis cui resisti non potest. In particolare venne sottolineato come la figura del “mostro ragionevole” fosse non solo scientificamente inesatta, ma psicologicamente destabilizzante per la collettività, sminuendo grandemente la dignità dell'uomo (Georget, 1984).
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In buona sostanza l’uomo tende a rappresentare il Male come un’entità a sé, individuabile esclusivamente nell’altro e non anche come parte di quella più complessa e problematica globalità che, in un costante divenire dialettico, contiene in sé anche il Bene, come il Mefistofele di Goethe rivela a Faust: «Se l’uomo, piccolo mondo di pazzia, si dà ad intendere di essere un tutto, io invece non sono che parte d’una parte, che da principio era tutto. Una parte della tenebra che ebbe per figlia la luce; quella superba luce, che alla madre Notte ora contende e spazio e rango antico» (Goethe, 1949, 43).
La realtà è che il sottosuolo emotivo non offre di sé immagini edificanti e ignorarne gli aspetti deteriori, relegandoli entro i confini dell’estraneità e della follia, è uno dei più diffusi meccanismi di difesa, benché scarsamente efficace: nell’universo esperenziale sovente emerge la manifesta impossibilità di tracciare tali confini e da ciò nasce lo scandalo rispetto all’azione criminosa. Quel che allarma la massa dei benpensanti, che colpisce il comune perbenismo è, infatti, l’assoluta semplicità e “normalità” dei comportamenti quotidiani di alcuni criminali, ancor più evidente e inquietante in quelli che si siano macchiati di omicidi seriali, in quanto, rivolgendo il proprio comportamento violento verso particolari categorie di persone, “vittime preferenziali” o anche “simboliche” (Merzagora Betsos, 2002), facilmente tengono con gli altri un contegno manierato ed insospettabile: Friedrich Haarmann, il vampiro di Hannover, appariva, a volte, come un uomo «dall’aria gentile, affabile e premuroso, estremamente curato, pulito, impeccabile», come lo descrive Lessing nella sua biografia (Lessing, 1996, 22), mentre ebbe ventiquattro condanne a morte per l’uccisione di ventisette giovani, di cui bevve il sangue. Gilles de Rais, noto come Barbablù, che uccise e seviziò centinaia di fanciulli, aveva un aspetto fiero ed era un eroe nazionale che combatté al fianco di Giovanna d’Arco (Ferrero, 1975; Bertin, 1971). Leonarda Cianciulli, la famosa saponificatrice di Correggio (AA.VV., 1974), aveva fama d’essere una vicina di casa premurosa e simpatica: nonostante le difficoltà economiche del periodo in cui visse, infatti, ella spesso regalava biscotti e saponette; che fossero fatti con i resti delle sue vittime di certo non sembrava pensabile [16]. Theodore Robert Bundy, il killer delle studentesse, che venne condannato a morte per tre omicidi, anche se si sospetta che ne abbia commessi almeno venti, aveva un aspetto, un’educazione e un livello culturale che non tradivano affatto la sua attitudine al crimine violento (Winn - Merrell, 1980), tanto che i suoi stessi amici, tra cui la scrittrice Ann Rule, perfino dopo l’arresto, stentarono a lungo a ritenerlo colpevole (Rule, 1980). Karl Denke, il cannibale della Slesia, era conosciuto come “papà Denke” per i suoi modi gentili e caritatevoli (Fornari - Birkhoff, 1996), eppure uccise più di trenta persone, conservando in casa e nella stalla parte dei loro corpi, secondo una ritualità comune a molti altri noti criminali, come, ad esempio, John Reginald Halliday Christie, altra figura dall’apparenza mite e dalla vita semplice, «la faccia insignificante, gli occhiali di corno, la calvizie, i modi urbani e modesti, gli abiti dismessi ma decorosi, la lombaggine, il giardinetto dietro casa, il gatto» (Furneaux, 1967, 7), proprietario di quella che fu definita la “casa degli orrori” al n. 10 di Rillington Place, Notting Hill, in cui furono rinvenuti i corpi di sei donne; come Dennis Nilsen, poliziotto giudicato affabile e di grande fascino, che uccise ben quindici persone e conservò parte dei cadaveri nel suo appartamento, affidando il resto alla rete fognaria (Masters, 1984), o Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, altro famoso criminale cannibale che, a dispetto dei suoi lineamenti gentili e dei modi educati, uccise e smembrò innumerevoli ragazzi (Masters, 1993; Schwartz, 1992).
La strada del crimine è disseminata di insospettabili assassini, dunque. Siamo animali violenti. E, se la repressione degli istinti criminali ci consente di vivere una vita da “buoni”, allontanando il lato oscuro della nostra anima [17], è pur vero che, a volte, abbiamo bisogno di un Tromp-la-Mort, vivendo intellettivamente i crimini altrui. In altre parole, pur se alcuni individui, di solito quelli potenzialmente più aggressivi, rifiutano a tal punto la propria natura da rimanerne spaventati, assumendo atteggiamenti di perdono incondizionato nei confronti degli altri e rifiutando qualunque contatto con le immagini della violenza, altri devono appagare e acquietare al contempo il “mostro” che vive in loro, leggendo libri, seguendo casi di cronaca, guardando documentari o film di fantasia. Per costoro il crimine, così come il processo che ne rievoca la storia, si trasforma in uno spettacolo [18]; lo dimostra il perdurante interesse per le vicende criminali, soprattutto per quelle di sangue, che da sempre macchiano d’infamia il genere umano ed a cui si lega il successo di pubblicazioni e trasmissioni televisive improntate sulla ricostruzione dei singoli casi o sulla loro sintesi processuale, in cui, sebbene non sembri condivisibile l’assolutezza del giudizio, si è voluto percepire un gusto generalizzato per la spettacolarizzazione della violenza [19].
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Note:
[16] Si noti, peraltro, che il caso di una donna criminale - come la Cianciulli e molte altre - è rappresentativo di una ulteriore paura radicata nell’immaginario collettivo. Particolare attenzione, infatti, ha da sempre suscitato la criminalità femminile, forse perché alla donna, potenzialmente madre, è attribuito un ruolo pacificatore a tutela di un corretto prosieguo della specie e la sua appartenenza al crimine genera un senso di allontanamento ancora più forte degli schemi moralistici comuni (per un approfondimento sulla criminalità femminile, si consultino le seguenti opere: Bishop, 1931; Carloni - Nobili, 1975; Carrieri - Greco - Amerio, 1985; AA.VV., 1996 a; Gluedk E. - Gluedk S., 1934; Gori - Perabò, 1895; Lane, 1994; Lombroso - Ferrero, 1893; Macciocchi, 1976; Newton, 1993; Pollak, 1950; Smart, 1981).
[17] Analogamente Riviere (1969, 11): «tutti noi sappiamo, o dovremmo sapere, che in noi stessi e negli altri esistono istinti aggressivi; nondimeno, quest’idea, tutto sommato, non ci piace molto, e così inconsciamente minimizziamo e sottovalutiamo la loro importanza. Non li osserviamo direttamente, ma li teniamo al margine del nostro campo visivo, e non permettiamo che entrino a far parte della nostra concezione globale della vita; mantenendoli un po’ confusi, essi non appaiono più così vividi, così reali, e vitali, e quindi così allarmanti come sarebbero se li vedessimo chiaramente».
[18] L’idea della spettacolarizzazione del caso giudiziario non è, certo, nuova, tanto che il legislatore processuale penale, tenendone ben conto ritenne opportuno disciplinare, nella stesura dei codici previgenti, la presenza del pubblico in aula. Non a caso, infatti, l’art. 375 del codice di procedura penale del 1913 e l’art. 426 di quello del 1930 stabilivano che non si potesse considerare l’aula di giustizia come un teatro, riservando posti d’onore. Il legislatore contemporaneo ha ritenuto inutile ripetere il divieto, ora implicito, ma se tale scelta dimostra come il tempo abbia disegnato un mutamento nella prassi giudiziaria, non esclude che l’evento criminale resti pur sempre fonte di grande attenzione, tanto che, all’art. 472 c.p.p., è previsto si possa procedere a porte chiuse anche nel caso in cui il giudice ritenga minacciata la tranquillità del teatro processuale, e ciò, è evidente, anche nel caso in cui tale “minaccia” sia rappresentata dalla presenza massiccia di curiosi e mezzi di informazione.
[19] «Alle ormai ben note correlazioni tra civiltà dei consumi e civiltà neobarocca, dell’effimero, del lusso, dell’eccesso, possiamo affiancare e tenere presente quella tra turbolenza sociale e cultura dionisiaca, cioè le lacerazioni del linguaggio e dei corpi laddove l’ordine delle leggi e delle forme non riesce più a regnare» (Abruzzese, 1992, 62-63).
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È certo un fatto: leggermente più complesso si fa il discorso quando dalla rappresentazione artistica di un crimine si passa ad analizzare gli effetti della divulgazione giornalistica, poiché i fatti, esposti nella loro concretezza e privati del filtro costituito dalla fantasia dell’artista, se appagano la curiosità dell’essere umano per l’omicidio-spettacolo, quale espressione totemica del Male, anch’essi contribuendo, così, a sedare i moti pulsionali più oscuri, tendenzialmente raggiungono in modo più immediato quelli che potremmo definire come i “recettori dell’aggressività” [20].
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Nota:
[20] Aggressività verso gli altri come verso se stessi. Si pensi all’aumento di suicidi che, in uno studio statistico degli anni ottanta, è stato possibile rilevare dopo che giornali e televisione ne avevano diffuso la notizia (Littmann, 1983; Phillips - Carstensen, 1986).
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In breve, il ruolo dei mass-media quotidianamente si duplica e al fondamentale diritto di cronaca, id est all’informazione quale essenziale contributo allo sviluppo sociale e politico di un paese, si affianca un anomalo meccanismo repressivo reso, al pari di un’opera d’arte, dalla rappresentazione spettacolare del crimine, quale contributo teso ad esorcizzare l’aggressività innata. In tal senso è ovvio che si debba cercare di evitare l’eccesso; si deve scongiurare, ad esempio, il pericolo di indurre un terrore generalizzato rispetto a cose, luoghi o persone, stigmatizzando tipologie di crimine o di criminali, modelli che inducono alla ghettizzazione fisica o morale; o, al pari, si deve evitare di portare alla fama colui che ha, con certezza o, peggio, per presunzione, commesso un omicidio, imponendolo come figura carismatica, nella sua negatività conclamata come nel suo ruolo di vittima rispetto alla società (Lewin - Lippit - White, 1939); ma, soprattutto, si deve evitare l’inquinamento dell’opinione, che non tocca solo la vox populi, ma incide chirurgicamente anche sulle idee di chi è chiamato a decidere.
Trascurate tali basilari accortezze, è vero, infatti, che l’informazione, varcando i propri confini, è in grado di assumere un ruolo molto pericoloso sotto un duplice profilo.
In primo luogo rispetto al destinatario del messaggio. Come accennato, il caso di cronaca rielaborato fantasiosamente in un romanzo, infatti, perde la sua attualità, diviene, sì, la descrizione di una violenza, ma stigmatizzata in un’astrazione. Il reportage giornalistico, invece, così come il documentario, anche se fortemente orientati in senso moralistico - anzi, a volte, proprio per questo - possono generare un effetto pari al “contagio sociale”, recando gli stessi effetti causati dalla legittimazione collettiva di un falso ideale, poiché mettono il fruitore del messaggio in relazione con la “normalità” del crimine, con la concreta possibilità di realizzarlo e potrebbero scatenare una spinta competitiva od un condizionamento criminogenetico a contrario, conducendo, nel primo caso, all’emulazione e, nel secondo, alla giustificazione, alla normalizzazione ed all’accettazione della condotta criminosa [21].
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Nota:
[21] Un esempio tipico del condizionamento criminogenetico è riscontrabile nella diffusione dell’ideologia nazista, o, meglio, negli argomenti antisemiti con cui Hitler ha portato gran parte del popolo tedesco a rendersi complice e artefice delle atrocità del genocidio: «in particolare è riuscito, con mezzi semplicissimi di isterizzazione collettiva e di propaganda invero geniale [il carattere differenziato è nostro], a convincere un grande popolo, considerato come sano e ragionevole, a certe idee estremamente puerili ed essenzialmente criminose» (Hesnard, 1966, 212). Il condizionamento, invece, è definibile a contrario, secondo la nostra opinione, quando scaturisce da una contestazione - di stampo generazionale, ad esempio, oppure genericamente ideologico, ivi compresi orientamenti politici e religiosi - rispetto al modello che si vuole imporre; rispetto alla esternazione collettiva di un giudizio morale fortemente negativo sulla condotta delittuosa di un soggetto, in modo tale che costui, nella mente del contestatore, diventa non solo forzatamente indotto al delitto dalla incomprensione altrui, vittima a sua volta delle circostanze o della società, cosa possibile, ma diventa assolutamente e incondizionatamente giustificabile e quasi ammirevole, quando, addirittura, non venga ad incarnare, proprio per la violenza della sua azione pregressa, un archetipo “protettivo”. Parlando delle matrici dell’aggressività, infatti, abbiamo evidenziato come questa possa essere anche di tipo difensivo rispetto a se stessi, alla famiglia e al territorio; dunque non è raro che un atto violento, benché tutt’altro che difensivo, venga recepito come l’espressione di una potenzialità difensiva, cosa che pone al riparo tutti coloro che, in modo tendenzialmente patologico, cercano protezione. Si pensi ai molti consensi e alle dichiarazioni epistolari di amore incondizionato spesso ricevute, in carcere, da alcuni soggetti detenuti per crimini omicidiari, o ancora a ritualità primitive tuttora esistenti, legate alla “magia dell’omicidio”, come quelle degli Yanomani, in Amazzonia, presso i quali l’omicidio non solo non è punibile, ma - probabilmente proprio come preventiva “azione di difesa” rispetto alla famiglia e al territorio - è sinonimo di potenza e successo sociale, tanto che tutti gli uomini dopo i venticinque anni ne hanno commesso almeno uno (Chagnon, 1977).
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In secondo luogo rispetto al corretto funzionamento della giustizia, poiché un intervento eccessivamente invasivo dei media, come accadde, ad esempio, nei primi anni del Novecento in occasione del processo Murri (in senso fortemente critico Ferrero, 1903), è in grado di condizionare l’opinione pubblica, ivi compresi coloro che operano a vario titolo nell’ambito del procedimento penale, con considerazioni conclusive non sempre rispondenti a verità.
Un recente episodio violento, balzato alle vette della cronaca nera italiana, l’omicidio di Cogne, fa tornare alla mente un famoso processo americano e non tanto per le vaghe assonanze di alcuni particolari (la struttura della villa, un abito insanguinato, l’arma introvabile, la parentela tra le vittime e l’imputata), che, a ben vedere, risultano comuni ad un’infinità di casi omicidiari, quanto per l’intervento massivo dei giornali. È il 1892 e siamo a Fall River, nel Massachusetts: Lizzie Borden viene processata per il duplice omicidio dei suoi genitori, cui sono stati inferti circa quaranta colpi d’ascia. L’arma del delitto non viene trovata, le prove sono meramente indiziarie, si parla di un vestito insanguinato, ma questo viene bruciato prima che gli inquirenti possano vederlo, e le testimonianze appaiono lacunose. L’opinione pubblica si divide tra innocentisti e colpevolisti. I giornali non parlano d’altro, al punto che il New York Recorder forma, addirittura, una giuria parallela a quella chiamata a decidere nel processo, composta da autorevoli e influenti cittadini del luogo - di cui non a caso viene pubblicata anche la foto - i quali quotidianamente tuonano le proprie opinioni in merito all’innocenza o alla colpevolezza della Borden: «A questa giuria speciale vengono forniti ogni giorno i verbali delle sedute, e l’ultimo giorno le viene richiesto di votare se l’accusa è dimostrata o non dimostrata» (Pearson, 1966, 138-139); ed è così che il parere unanime di non colpevolezza della giuria del New York Recorder precede di poco quello del tribunale.
In parte accade ancora oggi che un intervento massiccio dell’opinione giornalistica interferisca con i fatti [22]. Si pensi alla morbosa attenzione per vicende estremamente delicate, in quanto lacunose o poco chiare, come, ad esempio, il citato omicidio di Cogne, quello di Novi Ligure o il meno recente caso dell’Università di Roma, per i quali la ricostruzione mediatica dei fatti -condotta, spesso, dannosamente nella delicata fase delle indagini (AA.VV., 1996 b; Catino, 2000)- è stata, a volte, arricchita persino da una sorta di “perizia” psichiatrica parallela, esclusi pochi casi di serietà professionale, peraltro prevalentemente riferibile a professionisti afferenti al ramo specialistico della criminologia e della psichiatria, il cui intervento d’opinione non ha mai assunto una veste “peritale”, ma, anzi, si è giustamente mosso nel campo di una generale spiegazione di alcune dinamiche comportamentali devianti.
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Nota:
[22] «[…] Dal punto di vista psicologico, preme qui sottolineare che si è qui di fronte ad un uso errato del pensiero narrativo, utilizzato in un ambito che richiederebbe invece il ricorso al pensiero logico. Il pensiero narrativo, infatti, non può arrivare alla dimostrazione di colpevolezza od innocenza, che deve invece avvenire sul filo di un collegamento logico, nel quale non ci si limita all’analisi delle intenzioni, ma vengono presi in esame i fatti nelle loro concatenazioni causali» (Bonino, 2002, 13).
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In realtà, la formulazione di “giudizi” specificamente inerenti agli elementi procedurali sul singolo caso trova una sua utilità solo nell’ambito del procedimento penale, vuoi in fase di investigazioni - si pensi al criminal profiling (AA.VV., 2002; Picozzi - Zappalà, 2002) -, vuoi in sede probatoria. Al contrario, quando simili interventi vengono effettuati in una trasmissione televisiva o sulle pagine di un giornale, potrebbero influenzare i periti o i consulenti stessi, minando alcuni itinerari investiganti, oltre a contribuire alla formazione di un “giudizio collettivo” che precede quello del magistrato e, in parte, lo segue, qualunque sia l’esito del processo.
Assassini, amiamo, infatti, strillare dai nostri pulpiti immacolati; e, spesso, pur di dargli un volto, lo facciamo ancor prima che le prove ne stabiliscano inconfutabilmente la colpevolezza. Assassini! Ma da dove trae origine quest’infame appellativo?
Nel 1273 Marco Polo visita il castello del Vecchio della Montagna, nella valle di Almut in Persia. Egli è il capo degli Ismaeliti, passati alla storia come Assassini, appunto, termine che non a caso presenta la stessa etimologia di hashish. Era, infatti, proprio questa la droga che, presumibilmente, veniva somministrata ai seguaci del Vecchio per condurli, in stato di semi-incoscienza, in un paradiso artificiale, costruito dietro il castello, dove, per qualche giorno, potevano deliziarsi con cibi raffinati e splendide fanciulle. In realtà si trattava di un piano diabolico in grado di fornire al capo della setta uno dei più potenti strumenti di asservimento: una volta portati via da quel luogo di piaceri, infatti, gli Ismaeliti si sentivano persi e in loro s’innescava uno stato di frustrazione tale che, pur di tornarvi, erano disposti persino ad uccidere, a commettere un assassinio (Wilson, 1972 b). Perduta, però, con il tempo la diretta connessione con l’hashish e con la promessa del ritorno nel paradiso artificiale della Montagna, sorge spontaneo chiedersi perché ancora oggi si definisca “assassino” colui che commette un omicidio.
Alla luce di quanto detto e concludendo questo breve excursus sul lato oscuro dell’animo umano, si può fondatamente ritenere che l’uccisione, in un certo senso, continui ad essere il frutto di una sorta di “condotta necessitata”, consentanea al prevalere dell’istinto di morte e strettamente connessa con le più macabre e discutibili versioni personali dell’Eden, cosa che rende particolarmente paludoso il terreno su cui Arte, Informazione e Spettacolo possono legittimamente muoversi e che induce, pertanto, ad usare estrema cautela nella divulgazione di storie criminose, vere o false che siano.
© di Raffaella Bonsignori
[in Rassegna Italiana di Criminologia, Anno XV, fasc. 2, pp.143-168]
**** Non smetterò mai di ringraziare il Prof. Tullio Bandini, psichiatra e direttore scientifico della rivista Rassegna Italiana di Criminologia, per aver preso in considerazione questo mio articolo e per avermi onorata, complimentandosi con me «per la qualità e la completezza dell’articolo» ****
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